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Dischi per l’estate (ovviamente in jazz, e dintorni)

Un’altra carrellata molto trafficata, anche con alcuni senatori (Damiani, Fresu, Cavallanti, D’Andrea, Trovesi…) in evidenza

 

Consueta abbuffata pre-estiva, o se preferite pre-vacanziera, visto che l’estate è già iniziata, che attraverseremo come sempre (o quasi) partendo dagli organici più ridotti, nello specifico il duo formato dal bassista Paolo Damiani (foto sopra) e dal pianista Massimo Giuseppe Bianchi, che in Dall’ovunque che sei (Parco della Musica) intrecciano gli strumenti in un dialogo abbastanza in punta di penna, fitto ma senza fretta o necessità di mettere troppa carne al fuoco. Lineare, alla fine, e quindi godibile. Due, per parte loro, i trii, almeno in questa prima fase, trii pianistici, peraltro di tono molto diverso. Il primo si deve al pianista friulano Claudio Cojaniz, habitué di questa rubrica, che in Black (Caligola) illustra una volta di più la sua personale chiave di lettura della formula, rinforzandone i concetti attraverso un disco solido, di corpo, come sempre, ma non monolitico, anzi felicemente screziato, ricco di slanci. Come detto ben diverso Minimal Words (Improvvisatore Involontario), dove alla testa del trio c’è (forse non a caso) un batterista, il siciliano Francesco Cusa, a evocare tutt’altri scenari, più astratti, non necessariamente svolti attorno allo strumentario classico (acustico), con esiti alterni per quanto segnati da un’ottica sufficientemente originale.

Con l’aggiunta del bandoneon di Daniele Di Bonaventura a un piano trio per contro canonico, il barese Alberto Iovene ci regala in The New Day (Abeat) un lavoro magari non originalissimo come visione ma di sicuro buon gusto, suggestione e felicità tematica. Non c’è un pianoforte, bensì un sax alto (o soprano), Fabio Delvò, alla testa del quartetto Fellows, che firma The Crocodile Embalsers, album autoprodotto di lettura piuttosto chiara e diretta, memore di svariati modelli contemporanei fra i più eminenti. Sempre un quartetto ancia più piano trio sta al centro di Cosmonautica (Via Veneto/Jando) del romano Riccardo Gola, artista polivalente che nello specifico si destreggia al contrabbasso, con Francesco Bigoni che si divide fra sax tenore e clarinetto, facendosi decisamente preferire, come clima globale, nei brani in cui agisce su quest’ultimo, più originali (anche se i modelli non mancano certo neppure qui), eleganti ed evocativi.

 

A scendere, torniamo a un trio, decisamente anomalo (voce, clarinetto basso e percussioni) qual è quello artefice di Nuda pelle (NES), cofirmato, nell’ordine, da Giulia Cianca, Marco Colonna e Lorenzo D’Erasmo, per una musica fra song contemporaneo e jazz cameristico-sperimentale, ricca di buone idee e abilità nel metterle in pratica senza tracce di sussiego o intellettualismo. Su un côté decisamente più accattivante, con un’alta dose di gradevolezza, si pone poi Food (Tuk), terzo lavoro in duo fra il nostro Paolo Fresu (foto qui sopra), tromba, flicorno ed effetti vari, e il tastierista cubano Omar Sosa, con un bel po’ di ospiti, fra cui Cristiano De André, che ripropone la paterna A cimma, visto che il cd – come da titolo – è dedicato al cibo, con momenti di alta poesia ma qua e là anche qualche zuccherosità di troppo. Stessi strumenti di Fresu per Pasquale Paterra, che in Images (Caligola) guida un trio con chitarra elettrica e batteria (più trombone in quattro brani su undici, tutti suoi), per un lavoro di ammirevole misura, bella chiarezza d’insieme e felice ispirazione complessiva.

Lo stesso trombonista di “Images”, Federico Pierantoni, torna nel quartetto Emong del chitarrista Michele Bonifati che, con un sax alto al posto della tromba, firma Three Knots (nusica.org), lavoro vigoroso, ricco di energia (per lo più montante), elementi che su toni più evocativi, calati in un folklore tangibile quanto favolistico, anche proprio come idea riproduttiva (tutta la lunga tradizione della musica yiddish, e non solo), alimentano Sephardic Beat (Parco della Musica) del sax-clarinettista Gabriele Coen, uno dei pontefici massimi in materia (non solo in Italia), che – bisogna dirlo – non sbaglia un colpo, come questa sua ultima fatica (in quintetto) ribadisce.

Venendo a organici più corposi, eccoci a due album in qualche misura gemelli, il primo dei quali è The Dreamtime (Felmay) del veterano tenorista Daniele Cavallanti, opera di un settetto maestoso (e illustrissimo), con quattro fiati, due bassi e percussioni. Il tutto, perfettamente in linea con l’estetica del musicista milanese, si svolge attorno a climi robusti, epico-solenni, di emanazione – semplificando, ma neanche troppo – post-coltraniana/ayleriana. Notevoli, su tutti, gli apporti di Roberto Ottaviano, sax soprano, e Tiziano Tononi, percussioni. Dopo di che Cavallanti torna nel nonetto guidato dal polistrumentista Francesco Chiapperini in Transmigration (Splasch), lavoro di tono analogo anche se lievemente più calligrafico (e comunque di sicuro pregio).

 

Salendo ancora, eccoci alla terna di cd che chiude questa nostra carrellata, di area orchestrale. Il primo, stupendo (dobbiamo stupirci?), è Sketches of the 20th Century (Parco della Musica) di Franco D’Andrea, la cui vena creativa evidentemente non accenna a scemare, anzi, visto che ci troviamo di fronte a un lavoro ricco, composito, perfettamente rifinito in ogni sua piega, insomma una gemma assoluta, laddove Maé (Caligola) di un altro pianista, di età e pedigree ben più in divenire, Roberto De Nittis, ci offre uno spaccato a suo modo altrettanto esemplare di quel fenomeno che porta il nome di contaminazione (non proprio roba nata ieri), in lui particolarmente frizzante e – anche – accattivante. Un’altra forma di contaminazione, ancor più spinta fuori dal perimetro del jazz, va detto, è quella che attraversa l’ultimo lavoro di Gianluigi Trovesi (foto sopra), firmato in coppia col violinista Stefano Montanari e relativo ensemble classico-barocco, Stravaganze consonanti (ECM), opera ardita e insieme – a suo modo – rassicurante in cui più o meno note arie trovesiane si alternano a pagine di autori quattro-seicenteschi (Purcell in testa), in un contesto, un habitat, assolutamente incline al classico. Per indole, tono, intenzione, strumentario e chi più ne ha più ne metta. Lavoro curioso (ma non inatteso) quanto pregevole.      

Foto di Alberto Bazzurro

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