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Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Attraverso le corde

Puntata chitarristica con digressioni, come si conviene a una rubrica che esplora isole e isolotti…

 

La nostra puntata di oggi ruota tutta attorno alla chitarra, ovviamente con le deviazioni che da queste parti non mancano mai. Partiamo da due album appunto di chitarra sola, classica, acustica, protagonisti due musicisti legati da reciproca stima. Il primo è uno dei guru dello strumento, Ralph Towner (foto sopra), americano di Chehalis (Washington) ma da decenni di stanza in Italia, prima Sicilia e poi Roma. Membro fondatore degli Oregon, Towner ha da poco pubblicato il suo ultimo, come sempre raffinatissimo, lavoro, A First Light (ECM), undici brani quasi tutti a sua firma che confermano la sua convintissima discendenza classica, elemento che di fatto attraversa anche Trip with the Lady (Hi-Fi Di Prinzio) del nostro Maurizio Brunod, il quale usa peraltro una chitarra acustica ma non classica (cioè, schematizzando brutalmente, con le corde di metallo anziché di nylon), con un suono più netto, deciso, anche se la pulizia, la bellezza di suono, sono identiche. E anche la preziosità e l’eleganza. Fra i brani anche la magnifica Naima di Coltrane di cui, in ambito chitarristico, ricordiamo la storica versione del duo Santana/McLaughlin, a loro volta entrambi all’acustica, in “Love, Devotion Surrender”, roba di mezzo secolo fa.

Brunod (foto sotto) torna in un altro album, Gulliver (Jando Music), in trio con Danilo Gallo al basso e Massimo Barbiero alla batteria, a sette anni dal precedente “Extrema Ratio”, in un panorama ricco di spunti, ora più onirico-evocativo, ora più nervoso, libero, diretto, connotati che ritroviamo, pur su un registro diverso, anche in un altro disco in trio cui prende parte Gallo, Ellittica (Aut), con Carlo Maria Nartoni, pianoforte e oggetti, e Filippo Sala, batteria e percussioni. La musica, totalamente improvvisata (in “Gulliver” ci sono invece prestiti e riprese da svariati folklori e canti popolari, incluso El pueblo unido degli Inti Illimani).

 

Facendo un salto indietro di trentacinque anni e aggiungendo un sax tenore al piano trio, eccoci alla prima sterzata di oggi. Il cd s’intitola Empty Room (Red) e riporta alla luce un lp dell’88 del glorioso tenorsassofonista italo-americano Sal Nistico, scomparso tre soli anni dopo poco più che cinquantenne. Sono con lui gli allora giovanissimi Rita Marcotulli al piano, Marco Fratini al basso e Roberto Gatto alla batteria (incisione romana), per una musica piena di storia e lontana dalla bella calligrafia di tanti epigoni di coloro che quella storia hanno contribuito a scrivere. Tipo Steve Lacy, certo non di matrice post-bop, nel suo caso, di cui contribuisce, fra gli altri, a tener viva la memoria il sopranista pavese Gianni Mimmo, protagonista di due recenti cd entrambi editi dalla sua etichetta Amirani. Il primo, Herbstreise, lo coglie in duo col pianoforte di Nicola Guazzaloca lungo terreni come sempre rigorosi, nel segno della ricerca sui suoni e sulle combinazioni, sull’interplay, delicato e prezioso, laddove il quartettistico Cadenza del crepuscolo, completato da clarinetti gravi, organo a canne e contrabbasso (tutti stranieri), snocciola sei brani liberamente improvvisati che si muovono su terreni più scuri, nebulosi, quasi paludosi, in cui si fa talora una certa fatica a orientarsi.

Di segno diametralmente opposto, recuperando la strada maestra, un altro album ruotante attorno a un clarinetto, quello (canonico, qui) impeccabile di Gabriele Mirabassi, colto in Girasoli (Foné) in trio con Nando Di Modugno, chitarra classica, e Pierluigi Balducci, basso acustico. Tono e aplomb rimandano ai soli di Towner e Brunod, con un’adesione a stilemi classico-cameristici assolutamente capillare. Estrema purezza, quindi, e un minimo di asetticità, ciò che non si può certo dire di To Keep the Cloud Company (autoprodotto), ancora a firma di un trio, RedEmma, forte di tromba, chitarra (elettrica) e batteria (più effetti vari e un paio di ospiti qua e là), lavoro pieno di verve e buone idee, talora magari anche con qualche lieve eccesso di misura, ma sempre con la volontà di dire una parola per quanto possibile originale, cosa che certo la singolarità del mix strumentale favorisce e invoglia.

Veniamo ora a due trii più canonici, con la chitarra, anche qui elettrica, affiancata da contrabbasso e batteria. Il primo, Kissós (Aut), si deve al trentenne chitarrista reatino Nicolò Francesco Faraglia e si muove su terreni piuttosto tipici del genere (perché il guitar trio è veramente tale: un genere) ma non per questo privi di tratti originali, in un clima concentrato e partecipe che induce a un ascolto attento e non supino. Più vivace, diretto, con qualche tratto vagamente alla Frisell (modello di molti), Klondike (Honolulu) del senese Francesco Fiorenzani poggia su un’idea di trio che non rivela per contro particolari elementi di novità, pur inducendo a un ascolto senz’altro gradevole e abbastanza avvolgente.

 

Due estremi sono infine quelli che per certi versi toccano gli ultimi due cd di cui ci occupiamo. Il primo è un album solitario, ma con veramente tanta carne al fuoco (pur su un tono sostanzialmente pacato, riflessivo, talora immaginifico). S’intitola Racconti dalla fine del mondo (Desuonatori) e si deve al salentino Valerio Daniele (foto sopra), che jazzista non è, né – riteniamo – si ritenga o voglia essere. La chitarra, del resto, è strumento trasversale fra i generi (già per loro conto in forte crisi di identità) se ce n’è uno, e il Daniele, sovraincidendosi copiosamente, si disimpegna su molteplici chitarre e diavolerie varie, generando una musica magari sovraffollata ma non convulsa, anzi spesso descrittiva, diremmo cinematografica (sua, non a caso, la colonna sonora del recente docu-film di Davide Barletti e Lorenzo Conte Il tempo dei giganti), di cui val la pena di fare la conoscenza. Una semplice chitarra entro un quintetto a guida vocale (Valentina Fin) è quanto ci consegna, infine, A chi esita (Giotto Music), con la cantante vicentina alle prese con un repertorio (quasi per intero a sua firma) in bilico fra cantautorato neanche troppo classico e jazz tout court. Nel dubbio, il disco (il suo terzo) si muove con sufficiente sicurezza, anche se la messa a punto di maggiori tratti distintivi non potrà che giovare a un’ulteriore lievitazione della proposta.  

Foto di Alberto Bazzurro (Towner e Brunod).

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