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Davide Van De Sfroos

Goga e Magoga

Ogni volta che arriva la proposta di un nuovo album di Davide Van De Sfroos si è portati a dire che è quello della maturità. Così è stato per ogni nuovo album che abbiamo ascoltato, in particolare dopo quel capolavoro che era (anzi, che è) E semm partì…. Un album che ha fatto conoscere la poetica dell’artista monzese ad una grande platea di ascoltatori.

Ogni nuovo album, da quel momento (qui a fianco la cover dell'album uscito nel 2001), ha rappresentato un nuovo tassello nel mosaico che Davide ha voluto porre nella grande immagine artistica che lui,  probabilmente, ha già ben chiaro dentro di sé ed ogni volta aggiunge pezzi e noi ce ne accorgiamo per le sue sfaccettature che sono altra cosa rispetto ai precedenti lavori ma, al contempo, ne sono la logica prosecuzione e completamento. Van De Sfroos, essendo artista completo e visionario quanto basta per non accontentarsi mai dei risultati raggiunti, percepisce da ciò che ruota intorno alla sua vita, dai suoi affetti famigliari, dalle persone che frequenta, così come da quelle che incontra per la prima e magari unica volta, dalla natura, quel senso di “altro ed oltre” che a tutti noi, abitualmente, sfugge. E da quella percezione costruisce canzoni che non sono mai fini a se stesse, che vanno a scandagliare l’anima cercando di fare emergere quelle situazioni intense e profonde che, spesso, ciascuno di noi cela in maniera consapevolmente o meno.
Sotto certi aspetti la sua musica ed i suoi testi (anche quelli che al primo ascolto sembrano più semplici ed immediati) hanno una lettura che va oltre le apparenze ed arriva direttamente al cuore. Sappiamo bene che Van De Sfroos non scrive classiche canzoni d’amore o di natura “sociale” (o sociologica) che dir si voglia, eppure ad ascoltare bene i testi ci si accorge che una moltitudine di sue canzoni sono intrise d’amore e di voglia di comunità, di insieme, alla ricerca di un “noi” capace di costruire un intento comune, una visione che sappia essere capace di respirare (partendo dalla terra) l’infinito. Insieme all’amore ed al bisogno di fare/essere comunità, nelle sue canzoni vi è una forte ricerca di spiritualità, talvolta legata ad una sorta di panteismo che racchiude il Divino nello sguardo verso la natura e nelle sue manifestazioni “magiche”, dove il tempo sospende il suo respiro e tutto pare immobile come accade un istante prima di un temporale.
Altre volte, invece, il riferimento alla spiritualità è più deciso e marcato ma prima di arrivare al ‘Divino’ di cui sopra  c’è la ricerca, profonda e sincera, nel proprio animo, nei propri pensieri, desideri, azioni. Queste dinamiche i suoi estimatori le comprendono molto bene ed anche per questa ragione quando lo incontrano artisticamente lo seguono, riconoscendogli una fiducia artistica che si trasforma in fiducia umana capace di rimanere inalterata nel tempo.

Davide Bernasconi è uno straordinario conta/canta storie che si sta avvicinando alla fatidica soglia dei cinquant’anni ed anziché sfornare un album “di mestiere” propone un lavoro maturo, ascoltando le voci del vento, quelle della terra, delle acque e del fuoco. Ascoltando il bene ed il male che scorre accanto a ciascuno di noi. Ascoltando le proprie sensazioni che, ci pare di capire, non lo hanno mai tradito.

Questa lunga premessa ci pareva importante al fine di inquadrare al meglio il suo nuovo lavoro dal nome di “Goga e Magoga” che si presenta con Angel, brano che parte con un’atmosfera scura e con il suono dell’organo Hammond in secondo piano. Canzone della memoria, della gioventù trascorsa; canzone sempre alla ricerca di un futuro, canzone della necessità di fare esperienza e di non lasciarsi abbattere dalle situazioni, anche da quelle apparentemente insormontabili. Angel è canzone del coraggio e della necessità di affrontare anche i pericoli per poter crescere in maniera matura (bello l’apporto della seconda voce di Leslie Abbadini, qui a fianco di Davide in una presentazione del disco a Como). Intrigante il confronto tra gigli e merda come ritorno alla memoria deandreaiana di Via del Campo), con il bel suono della chitarra di Glielmo (di nome Maurizio, ma conosciuto anche come Gnola, nella foto a destra) che disegna cerchi di luce elettrica. Ki parte con il suono della chitarra acustica e riesce ad aprire squarci nel tempo che si mischiano con la nostalgia del passato, uno sguardo sul mondo e sulla natura che diventa metafora della vita. Tante domande appaiono e si susseguono a cucire la trama di una stoffa che si chiama vita. Il tocco morbido del banjo accompagna l’intercalare delle domande e la fisa di Billa si unisce al violino di Anga (magica la coda finale su questo pezzo) a costruire un percorso sonoro lieve ed, al contempo, capace di schiudere orizzonti di fantasia. Le parole del testo sono ricche di immagini e metafore sempre di grande suggestione ed il finale si trasforma in una sorta di incipit della colonna sonora di un film western. Arriviamo così a Figlio di ieri, uno dei brani cardine di questo lavoro. La voce di Van De Sfroos è intensa ed a tratti immaginifica. La suggestione è fortissima e l’emozione palpabile. Canzone sulla memoria e sul passato, è una delle canzoni forse più belle del suo canzoniere. Ci piace pensare che il Figlio di ieri sia proprio l’autore della canzone: l’artista che guarda indietro, che guarda dentro se stesso, che si sofferma ad osservare il tempo trascorso che, forse, non si è mai mosso realmente. Parole che diventano immagini intense ed arrivano a toccare il nostro profondo, ma solo dopo vari ascolti in quanto sapientemente “nascoste” da una melodia che affascina e distrae dal testo.
In Crusta de platen, morbida ed apparentemente “serena” ritroviamo le impellenti ragioni del tempo e la musica, supportata da tromba, fisa (qui a sinistra una foto di Davide "Billa" Brambilla), pedal steel, è capace di mischiare le carte rendendo lieve una canzone profonda, a tratti quasi dolorosa per le immagini che richiama, per gli sguardi verso quell’infinito che, magari, si immaginavano perdute nel tempo. Ma il passato e quello che si è vissuto, visto, interiorizzato nella giovinezza ed è sempre lì a ricordarci chi eravamo, chi siamo e, forse, per indirizzare in maniera meno dolorosa il nostro futuro. Nel calderon de la stria è una sorta di Desolation road raccontata dalla riva tremezzina. Una canzone dove appaiono varie persone, luoghi, immagini che sembrerebbero in antitesi o in contraddizione tra loro ma, in fondo, altro non rappresentano che la vita che si svolge sotto i nostri occhi; il quotidiano che si manifesta quasi invisibile ma che giorno dopo giorno racconta la nostra storia e la nostra presenza su questo mondo. Una storia infinitesima ma - come per tutti - originale ed unica.
E la figura della strega è lì a ricordare che esistono cose e situazioni, realtà ed esperienze, che sono posizionate oltre la nostra vista, che sono dentro di noi, fuori di noi, intorno a noi. Alcune le vediamo, qualcuna la percepiamo, altre le immaginiamo. Altre ancora ci sono sconosciute…La musica è come una sorta di girotondo intorno al fuoco: un fuoco che richiama una comunità o, almeno, il bisogno di incontrarne una, di costruirne una, di viverne una.

Torniamo alla scaletta del disco per raccontare Mad Max, brano che parte con uno splendido attacco in stile Jethro Tull, con il suono del flauto e della chitarra elettrica che richiamano le sonorità dell’indimenticato gruppo inglese. Ma le similitudini si fermano qui, perché la canzone è profondamente vandesfrossiana, piena di visionarietà e di concretezza. Una sorta di racconto della fine del mondo, della distruzione dell’umanità o, forse, del bisogno che tutto si distrugga affinché si possa ricostruire. E per farlo si riparte da premesse differenti da quelle nelle quali abbiamo vissuto fino ad oggi, considerando possibile un progetto che arriva da un altrove a noi sconosciuto così come la figura tratteggiata alla fine della canzone, accompagnata dal violino di Anga (qui nella foto con Davide e Glielmo) e della melodia forte e potente, ci accompagna con il pensiero verso quegli “Avatar” che, in ogni periodo delicato della vita del pianeta, sono apparsi ad indicarci la necessità di un cambio di rotta.
Un nuovo modo di concepire le relazioni tra le persone e il mondo per non soccombere o, almeno, per cercare di vivere meglio. Evitando, se possibile, di distruggerci gli uni gli altri. Infermiera
De me appare quasi come una traccia “di passaggio” nell’economia dell’album ma ascolti attenti rendono grazia e giustizia a questa canzone, così profonda e ricca di sfumature dell’anima. Anche in questo caso il passato arriva prepotente a bussare alle porte del nostro cuore grazie alla capacità empatica posseduta dall’autore che trasforma ciò che è “suo” in quello che, invece, è inscritto in un “noi” vero e profondo. Potrebbe essere la sua storia ma, in fondo, è storia nostra perché “siamo tutti ripartiti e, forse mai arrivati”. La metafora della ricerca, del viaggio, del desiderio di scoprire se stessi è parte essenziale della vita di ciascuno e le parole di questa canzone ce lo ricordano molto bene lasciando che le immagini raccontate possano entrare nel cuore e fare il loro necessario “lavoro” di ricostruzione di una memoria per guardare la futuro. è forse la canzone che non ti aspetti, con questa figura “materna” tratteggiata con grande delicatezza che appare come una sorta di Madonna laica. Una Madonna che sappia alzare lo sguardo verso il cielo affinché il Padre possa porre termine alle stragi, alle morti innocenti, al dolore che non si consola. Una Madonna capace di avere sempre la forza di assistere qualcuno sul confine della morte. Una canzone intensa e piena di delicatezza, di amorevolezza, colma della pietas più vera. Non quella fatta di carità pelosa bensì di autentica compassione e misericordia per chi è nella necessità di ricevere aiuto e conforto pur non avendo magari neanche la forza per chiederlo.

Il cinema Ambra è un'altra immersione nel mondo onirico e in quello trascorso, vero o immaginato che sia, di Van De Sfroos che, accompagnato da ritmi in stile similcaraibico, ci prende per mano facendoci entrare, senza pagare il biglietto, al Cinema Ambra, che potremmo interpretare come il suo specialissimo Cinema Paradiso. I nomi dei registi e alcuni film citati o richiamati ben fanno comprendere quanto le immagini, le storie, le avventure, siano importanti nella poetica di Van De Sfroos. Cinema come immersione nella finzione, nell’immaginazione che ti libera dalle tensioni del quotidiano, che ti fa entrare in una dimensione immaginaria che astrae della fatica ed illumina la strada per il domani, che aiuta ad avere fiducia in se stessi. La vita è difficile ma l’immaginazione supera tutto, anche i  pensieri più torvi ed oscuri. Luogo reale o perso dentro di noi nulla importa ed anche se il nostro cinema preferito ha un altro nome l’importante è che ci sia a darci conforto nei momenti decisivi. La voce morbida, quasi fatata di Leslie Abbadini, accompagna con delicatezza il suono della celesta ed il cantato di Davide in Il re del giardino, grande ballata piena di sentimento nella quale viene tratteggiata la figura di un anziano che vive in un  giardino in cui pare essere racchiusa una parte della la sua vita. Le immagini fissano bene sia la figura di questa persona che il luogo del quale è Re e di ciò che lo circonda. La fotografia di una vita, della vita, del microcosmo in un’immagine forse sfuggente ai più ma non all’occhio attento di chi ha la poesia nella mente e nel cuore.

Se non nella musica, certamente gli echi dello sguardo gucciniano sulle persone “minime” ci sono tutti… Goga e Magoga (qui il video del singolo https://www.youtube.com/watch?v=4SCXad8IF9o&feature=youtu.be) in alcuni contesti, è sinonimo di confusione, di rebelòt, di una cosa che, nella sua dinamica, fa un po’ paura anche quando non se ne comprende l’origine. Così come non è ben chiara l’origine di entrambe le parole che rappresentano, nella Bibbia, in Genesi, nel Libro di Ezechiele, nel Libro delle Cronache, l’immagine di popolazioni, con diversa genealogia, provenienti dal nord di Israele e dotate di grande bellicosità. Come racconta Ezechiele sarà il Signore a spingere queste genti contro Israele affinché la potenza del Signore stesso possa distruggerle e dimostrare d’essere il vero protettore di Israele. Senza soffermarci su uno dei passaggi criptici del testo biblico (visto che non ne abbiamo conoscenza e competenza) quello che colpisce del brano dal titolo omonimo è l’introduzione musicale che, con il violino e sempre con la voce femminile di Leslie Abbadini, crea una sonorità mediorientale accattivante. Quello che colpisce nella strofa iniziale è una sorta di apparizione della storia del popolo ebraico sempre alla ricerca dell’approdo finale. Ma, alla fine, si capisce che questa è solo una metafora perchè chi è alla continua ricerca di trovare senso alla diaspora e l’interiorità di ciascuno di noi sballottati dalla confusione (dalla Babilonia…) nella quale siamo ormai immersi fino al collo e, purtroppo, pare che non si riesca a trovare una via d’uscita a questa situazione. Goga e Magoga è una sorta di affresco della decadenza della nostra società, del nostro tempo, dove “mentre il Titanic affonda l’orchestra suona ancora”. Un monito quasi apocalittico quello trasmesso dalla canzone quasi da ultima spiaggia con l’augurio che qualcuno l’ascolti e possa farne l’opportuna riflessione, almeno per il proprio quotidiano e per la capacità di interagire con “l’altro”. Prossimo o lontano che sia. Colle nero ha il sapore della nostalgia e della forza del rapporto tra tempo, natura e persona. Tutto si intreccia, nessuno può sfuggire all’altro. Il tempo non ha senso senza l’uomo, che non esiste senza la natura la quale si nutre del tempo. È una sorta di canto tribale, senza ritmi particolari, ma cantato come il soffio del vento, quel vento che è forma di natura ma anche alito di Dio che crea l’uomo e la storia. E da quel momento il tempo ha un senso e la natura vive per l’uomo. Canzone breve ma lunga come l’infinito…

Si apre con la fisa Gira Gira, una canzone veloce, con il suono schioccante del banjo in sottofondo che si mischia a tutti gli altri strumenti. Tante le immagini che si susseguono nella canzone dalle metafore “del cuore cacciavite” ai personaggio dei fumetti, delle canzoni, della TV. Un viaggio nel quotidiano, nell’effimero, nell’inquietudine del vivere. Una canzone, questa, che dal vivo farà la sua bella figura e coinvolgerà il pubblico sotto il palco (una delle decine del suo ampio repertorio). Omen arriva con la voce di Van De Sfroos accompagnato dal mix strumentale della viola, del violino e della chitarra acustica. Una canzone intensa che racconta la storia di chi attraversa la Storia, degli uomini che hanno camminato sempre avanti tutti. Che hanno costruito, senza clamori, la Storia e che poi vengono dimenticati. Ma la loro opera, comunque, non è stata inutile. Una canzone che mette i brividi e che sarebbe piaciuta al grande Nick Drake per la sua capacità di disegnare, con grande semplicità, immagini di straordinario fascino e stupore.
Arriviamo alla penultima traccia, Il viaggiatore, una sorta di blues italico che manifesta lo sguardo verso la necessità del viaggio come metafora del vivere. Perché il viaggio è sì pericolo ma, anche, opportunità di incontri che fanno crescere, che danno senso al giorno, alla sera, alla notte. Una canzone il cui testo, pur con le necessarie e dovute differenze di età, contesti ed esperienze, avrebbe fatto piacere al leggendario Robert Johnson. Ascoltate con attenzione per credere e godete dell’Hammond che accompagna i vocalizzi e la chiusura vocale di Leslie Abbadini in appoggio al canto di Van De Sfroos.

Il dono del vento è la giusta chiusura di Goga e Magoga. Una canzone che parla di vita e di morte, ma quest’ultima è accettata perché, prima, si è vissuto e quindi deve essere accettata come naturale giro del tempo. Il suono del flauto irlandese rende meno “docile” il senso di questo canto di commiato (mi pare di ascoltarlo già, cantato dal pubblico nei concerti…) che termina cullato dal violino di Anga che appare come lo sguardo bonario che vede un figlio partire. Goga e Magoga è un album decisivo nella poetica letteraria e musicale di Davide Van De Sfroos.

Un album che racconta molto più di quanto siamo in grado di comprendere e percepire, un lavoro pieno di nostalgia, di sguardi verso il passato ma, anche, pieno del desiderio di andare sempre oltre. Non dimenticando d’essere Figlio di ieri ma, anche, di essere un Omen e un Viaggiatore che Gira Gira ma poi, grazie al Dono del vento ed affrontando il Goga e Magoga in cui è immerso, si fermerà per diventare Il re del giardino in attesa di una Infermiera che sarà vicino nel momento del saluto ed andare a vedere, in eterno, i film del Cinema Ambra. Ed in quei film scoprire Ki si è davvero e che cosa gli altri sapevano De me. E poi volare come un Angel e rubare El Calderon de la stria mettendoci dentro la pozione bollente con la Crusta de Platen e poi, in volo, dopo avere superato il Colle nero aspettare, finalmente, il ritorno di Mad Max.

 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Alessandro Gioia Paolo Costola Davide Van De Sfroos  
  • Anno: 2014
  • Durata: 63:25
  • Etichetta: Universal Music Italia

Elenco delle tracce

01. Angel
02. Ki
03. Figlio di ieri
04. Crusta de platen
05. El calderon de la stria
06. Mad Max
07. Infermiera
08. De me
09. Cinema Ambra
10. Il re del giardino
11. Goga e Magoga
12. Colle nero
13. Gira gira
14. Omen
15. Il viaggiatore
16. Il dono del vento

 

Brani migliori

  1. Goga e Magoga
  2. Il dono del vento
  3. Figlio di ieri

Musicisti

Davide Van De Sfroos: voce, chitarre acustiche ed elettriche, armonica, cori, shell horn  -  Leslie Abbadini: voce e cori  -  Maurizio “Gnola” Glielmo: chitarre  -  Paolo Costola: chitarre, chitarra baritono, sitar guitar, cori  -  Davide “Billa” Brambilla: Hammond B3, fisarmonica, pianoforte, tromba  -  Gianni Sabbioni: basso elettrico, contrabbasso  -  Alessandro Gioia: batteria, percussioni, piano Fender Rhodes, organo positivo, celesta, hand bells, mellotron, moog Taurus, bass pedal, Hammond B3, shaker, harmonium  -  Angapiemage “Anga” Galiano Persico: violino  -  Alessandro Parilli: basso  -  Diego Scafidi: batteria, percussioni  -  Marco Vignuzzi: authoherp, mandolino, chitarre elettriche ed acustiche, dobro, irish bouzouki, mandoguitar, moog, banjo, chitarra terzina, cori  -  Valerio Gaffurini: moog, mellotron, maliets, pianoforte  -  Maurizio Leone: flauto  -  Alberto Pavesi: bodhran  -  P. Antonetto: archi, contrabbasso  -  Alberto Gioia: Hammond B3  -  Andrea Cusmano: ciaramella  -  Paul Rippe: violoncello  -  Sandro Petrone: armonica