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Edgar

Anche se non sembra

Uno dei vizi di chi scrive di musica – spesso - è quello di volere tutto “etichettare”. Probabilmente è solo una sorta di riflesso pavloviano, una difesa contro il “dilagare” sempre più massiccio di nuove uscite discografiche. Lo ammettiamo: è un vizio da cui molto spesso non scappa (scampa?) neppure il sottoscritto. Proprio per questo ci resta difficile “raccontare” questo secondo lavoro discografico degli Edgar (il primo, però, col nome privato di “cafè”) dal titolo Anche se non sembra. Perché è un lavoro che fugge qualsiasi classificazione tassonomica (o – peggio ancora! – merceologica). È come un sogno. Quando pensi di averlo compreso, di ricordare tutti i dettagli, l’irrompere della razionalità dissolve i filamenti irreali dell’onirico. È ha davvero molto dell’onirico questo lavoro, sia nei suoni che nella parole. Verrebbe quasi da dire che ha dello psichedelico (si vedano anche le foto del booklet), se l’aggettivo non richiamasse a certa musica fine anni Sessanta. Il fatto è che le 11 tracce che compongono l’album sembrano girare vorticosamente senza un preciso centro (di gravità permanente). In particolare manca l’appiglio – sempre così consolatorio – del ritornello (presente, qui, in non più di un paio di pezzi).

Si ha l’impressione che in questo lavoro siano nati prima i testi, e quindi la musica sia stata composta con il compito di accompagnare – per tornanti spesso sinuosi – le parole. E proprio questo aspetto rende ancor più ipnotico il percorso, con sillabe che si allungano e si accorciano a seconda del dettato musicale (si veda, a questo proposito, l’incipit di Lettera in cui la melodia del cantato subisce continue “accelerazioni” e “decelerazioni”, se mi si concedono i termini). 

È una dicotomia che troviamo anche per ciò che concerne la lunghezza del verso: alle volte piuttosto lungo altre cortissimo, tanto che se fosse letteratura occorrerebbe parlare di predominio degli spazi bianchi (mi riferisco in particolare a S barrato). Vi è, insomma, una certa tendenza allo stile nominale, tanto che alcuni versi si atrofizzano a veri e propri elenchi: “Cari/ falsi/ santi/ amori/ belli/ persi in fondo agli sfondi” (D’istinti saluti). Proprio quest’ultimo esempio mi permette di segnalare come Stefano Bolchi (autore di quasi tutti i testi) e soci siano abilissimi nel giocare con la lingua. Ecco, quindi emergere paronomasie (vale a dire l’accostamento di parole dal suono simile ma dal significato diverso): “Contro un altro giorno/ conta fino in fondo/ …/ lente sopra il mondo/ lento il tempo intorno” (La penultima pagina); giochi di parole: il titolo D’istinti saluti; anastrofi (vale a dire l’inversione dell’ordine abitale delle parole): “Già/ di terra e carne il cuore/ sa” (Già, dedicata al grande Piero Milesi, che aveva prodotto e arrangiato il primo lavoro degli Edgar Cafè, Alcuni fattori marginali); ripresa e rielaborazioni di modi di dire: “Tra il dire e il fare/ in mezzo a remare” (Vivo), “Innamorarsi di te una volta al giorno/ toglie la pioggia di torno” (“L’astronave”); frasi apodittiche: “È quando non resta più niente/ che l’orizzonte comincia a cambiare” (L’astronave). Vi è, insomma, una certa predilezione per il linguaggio alto-letterario come si evidenzia in strofe quali “Questo posso offrirti [reminescenza montaliana?]/ il mio canto/ una voce incerta/ un mite pianto [e si noti l’inversione aggettivo-sostantivo]” (Lettera). Inserti che poi coesistono accanto a un linguaggio decisamente più basso-colloquiale fatto anche di termini scurrili.

D’altronde – e qui entriamo nell’aspetto più prettamente contenutistico – tutto l’album sembra pervaso di questo scontro-incontro di alto basso. In altri termini, grandi domande esistenziali si pongono lungo il percorso della vita quotidiana (spesso urbana). Emblematici, da questo punto di vista, alcuni spostamenti semantici, come in Tappetino part-time dove il posteggio “automobilistico” della domanda (retorica) “Sai perché non trovo posteggio per me?/ Di parcheggio non ce n’è” sottintende ben altro posteggio “esistenziale”.

Insomma, un disco ipnotico ed onirico – anche al prezioso lavoro in studio di Raffaele Abbate - che merita davvero di essere ascoltato e assimilato. Un lavoro che può spiazzare ad un primo frettoloso ascolto, ma che – come appunto un sogno – deve essere lasciato vagare dentro la mente dell’ascoltatore.

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Edgar, Daniela Bianchi e Raffaele Abbate     
  • Anno: 2015
  • Durata: 45:00
  • Etichetta: Orange Home Records

Elenco delle tracce

01. Vivo
02. L’astronave
03. Sembra semplice
04. Gli asini
05. D’istinti saluti
06. Lettera
07. S (Esse barrato)
08. Luogo comune
09. Tappetino part-time
10. La penultima pagina
11. Già 

Brani migliori

  1. Sembra semplice
  2. Vivo

Musicisti

Stefano Bolchi: Voce, chitarra, batteria  -  Federico Fantuz: Chitarra elettrica  -  Daniele Ferrari: Basso  -  Mattia Giachino: Voci  -  Osvaldo Loi: Tastiere, piano, synth  -  Daniela Bianchi: Voce