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Sanremo 2024: tutto il resto è (la cumbia della) noia

Cinque serate di Festival tra canzoni, arringhe social, polemiche e co-conduttori

L'ultimo Sanremo di Amadeus

 

Notturno delle tre, scriveva Fossati intitolando un pezzo di oro e di argento, notturno delle tre, ma senza merletti e luccichii, abbiamo patito per arrivare alla fine di una specie di Telethon nella serata finale della settantaquattresima edizione del Festival di Sanremo. 30 canzoni per la vita, 30 pezzi di un puzzle già scomposto dalla prima apparizione e rattoppato con lo sputo per una edizione brutta bruttissima, l'ultima di Amedeo, si dice. Quizas, quizas, quizas, vedremo. Intanto verso le 2.30, dopo una intera settimana di passione e una finale interminabile, alla proclamazione della vincitrice, Angelina Mango, con La noia, oltre a intravedere nel nostro salotto, per la stanchezza, coriandoli, autocarri, il fantasma di Marcello Mastroianni e il pulmino dell’asilo, le carte che il giorno prima si erano spostate in favore di Giolier, con grande disappunto del pubblico e incredulità generale, sono ritornate in asse verso un risultato previsto e anche abbastanza scontato.

Ha vinto ciò che più rassicurava tutti: mamme, nonne, nipoti e mercato musicale, i veri fruitori del grande carrozzone festivaliero. Lei è giovane, è talentuosa, è figlia d’arte, è pure donna, come è stato scritto da alcuni, il che di questi tempi puntigliosi fa tirare sospiri di sollievo agli attentissimi paladini delle divisioni di genere, come se chi merita un podio non debba portare arte, voce, modi e una canzone gradita al pubblico, ma una punes da ficcare su una piccola vittoria personale a forma di casellina. Dispiace, e molto. Dispiace perché da queste parti le canzoni non hanno sesso e chi le canta deve saperle portare addosso come un vestito consono a chi scende quei gradini: un bolerino ricamato, un bermuda pieno di tasche, uno smoking di velluto, un jeans e una maglietta. Poco importa cosa; importa il come, non la costruzione intorno. E invece pian piano si sta perdendo il centro, l’obiettivo e, in un Festival popolato da giovanissimi allacciati a doppio filo alle pagine social, quel palco ormai è un grande amplificatore televisivo e mediatico di qualcosa che va molto oltre la canzone. Lei, la grande assente, è in secondo piano, rispetto a meccanismi altri e Sanremo un bilico tra il passato e il futuro, stretto in un presente completamente privo di identità. Sono anni di passaggio, in cui i “vecchi” cercano appigli, leggono l’oggi con gli occhi di quando guardavano volare le note su Modugno, e i “giovani” puntano alla città dei fiori come ad un palco importante da calcare, spostando l’attenzione dal canto all’essere personaggi, proprio come la contemporaneità impone. Riempire i profili social con le foto giuste, prima di correggere quel sib che si storce ancora in gola. Inevitabili i patatacrack, come quando passatisti e futuristi si menarono alla prima de La sagra della primavera di Stravinskij.

 

Occorre aspettare, a un equilibrio si arriverà. Angelina ha molte carte in regole, canta bene, ma portava un pezzo chiassoso che si incanala nella linea dei tormentoni da cui speriamo presto lei verrà fuori. Stesso destino per Annalisa, la cui bravura, dimostrata pienamente nella serata delle cover, a braccetto con La Rappresentante di Lista, su un pezzone come Sweet dreams degli Eurythmics, continua a non brillare sotto scelte commerciali: il suo brano la offusca, rendendola una qualunque, quando potrebbe saltare l’ostacolo anche bendata. Porta a casa un terzo posto a denti stretti e sicuramente tanti passaggi in radio. Medaglia d’argento per Geolier, fenomeno tutto da capire, votatissimo dai giovani, inviso al pubblico più adulto (la serata delle cover se l’è portata in tasca ma a suon di fischi dell’Ariston): un foruncolo venuto fuori a sorpresa a sparigliare le carte, inaspettato e appartenente alla scena trap di una Napoli metropolitana. Ai posteri. La conduzione di Amadeus, a cui ormai siamo abituati da cinque anni, ha alternato siparietti, gag, momenti gravemente cringe e polemiche messe a tacere con un poco di zucchero, alla maniera di Mary Poppins.

Resterà nella storia dell’uomo l’idea di aver fatto cimentare John Travolta nei passi del Ballo del qua qua, scatenando un putiferio social e non, sì da far accapponare la pelle. Molto sul crinale anche l’ospitata di Giovanni Allevi, tornato magro, canuto, provatissimo dopo la malattia. Parla al pubblico, si commuove, poi suona. Probabilmente serviva a lui questo ricongiungimento con tutti noi, probabilmente serviva anche a qualcuno di noi, ma sicuramente, purtroppo, serviva alla macchina infernale che si accaparra una esclusiva, facendo roteare i dollari nei bulbi oculari. E questo fa venire i brividi di orrore. Le signore che hanno affiancato il capobanda in queste sere (Giorgia, Teresa Mannino e Lorella Cuccarini) hanno fatto del loro meglio, ognuna a modo suo, rimettendo spesso a posto cocci e ristabilendo un ordine e un’eleganza che i due mattacchioni di Ama e Fiore, come scappati da una classe delle medie, hanno strapazzato puntualmente, sempre in preda a una ridarella incontrollata. Calme, posate, di grande personalità e padrone del palcoscenico, tutte e tre hanno dato al pubblico quella sicurezza e quell’appiglio che si cercavano per poter restare a galla. Meno centrato nel compito di co-co Marco Mengoni, troppo preso dal ruolo di interpretare se stesso, scisso tra due personalità ambivalenti, l’ex vincitore dell’arena e il presentatore. Lo ribadiamo: è bravissimo, bellissimo, levissimo, ma un tanto di meno in tutto e sarebbe perfetto.

 

Giù dalla torre la retorica sparsa, le fanfare, i baci alle mogli e ai figli, i segni della croce prima di iniziare, tutta roba da salotto buono della nonna che va a scontrarsi con le riprese della nave da Crociera e i momenti tunz tunz: un minestrone inquietante e privo di senso. Benissimo la serata delle cover, quando finalmente si è tornati, pur se mischiando stili, età, arrangiamenti e scelte musicali, ad ascoltare canzoni, a respirare, dietro idee di rielaborazioni e duetti con cui alcuni hanno rischiato fortemente, andando a segno bene, altri hanno scelto la via dell’autocoverizzarsi, dimostrando una sorta di abulìa personale, abbastanza imperdonabile. Una nota di merito per Diodato, elegantissimo e compassato (in alto nella foto), per i Ricchi e Poveri, coraggiosissimi e matti al punto giusto, per la Bertè, vera da fare male, sempre e per sempre e per Ghali, (nella qui sopra), il più a fuoco di tutti, arrivato sul palco con uno dei brani più belli del Festival, il coraggio di chi ha tutte le emozioni a posto e un messaggio forte da gridare al mondo. Ma porta a casa un quarto posto. Lo abbiamo detto in apertura: vanno ancora accontentate le mamme, le nonne, i nipoti e il mercato discografico. Di rischiare non se ne parla. Attendiamo quell’equilibrio succitato. Tutto il resto è (la cumbia) della noia. Totale.

P.s.
una nota dolente, in chiusura. Non è comparso cenno né a Gian Franco Reverberi, né a Franco Migliacci (qui sotto nella foto), entrambi geniali Maestri della musica e protagonisti indiscussi di Sanremo, andati via da pochi mesi. Nel blu dipinto di blu l'ha scritta Migliacci. Così, per dire.

 

https://www.rai.it/programmi/sanremo/


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