ultime notizie

Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Cisco

"Salviamo 'sto Paese"

Mentre in questi giorni sta per partire il suo nuovo tour ci siamo fermati a parlare con Cisco, al secolo Stefano Bellotti, della sua musica e soprattutto del suo secondo disco solista, Il mulo, uscito a settembre. Con la spontaneità e la vitalità tipiche delle sue canzoni, l’ex Modena City Ramblers ci ha raccontato del suo nuovo percorso artistico, della continua ricerca d’identità, della curiosità per la propria e per le altrui culture ma anche del crescente pessimismo per la situazione sociale e culturale italiana.


“Il mulo” è la tua seconda esperienza solista. Cos’è cambiato dopo i Modena City Ramblers e dove vuole spingersi la tua musica?
Diciamo che sono cambiati un po’ i punti di vista e alcune situazioni importanti della mia vita. Quella coi Modena è stata un’esperienza travolgente, che mi ha assorbito in tutto e per tutto, però l’ho considerata al termine: dopo quattordici-quindici anni di rapporti con un gruppo sentivo di essere arrivato alla fine di un percorso. La volontà di iniziare un percorso  solista – che è sì solista, ma sempre in compagnia di tanta gente, di tanti compagni di viaggio – è un’esigenza artistica e personale per rimettersi in gioco, ricominciare, rimettere in ballo le proprie idee, la propria voglia di far musica, e anche semplicemente staccarsi da certi cliché musicali, e avere più spazio per “sperimentare”, giocare un po’ di più con la musica, essere liberi di provare a fare quello che uno ha in testa senza troppi paletti, che ovviamente un gruppo come i Modena, giustamente, ti può mettere. Nella mia esperienza musicale da solista ho questo marchio, voglio fare ciò che la mia mente e il mio cuore mi dicono, cercando di farlo al meglio e senza troppi preconcetti, e senza dire “questo non si può fare” perché è folk o non è folk, ma mi rimetto in gioco e lo faccio.

Sembra che in questo disco tu abbia cercato di sviluppare vari percorsi tematici, vari aspetti del mondo in cui vivi descritti attraverso la tua lente inguaribilmente autentica e diretta. E inizi proprio con Il mulo: pensi che questo brano si possa definire il tuo “manifesto d’intenti”, o ti limiti ad evidenziare la tua cocciutaggine, o la tua coerenza e voglia di resistere?
Un po’ entrambe le cose. Da una parte c’è questo “manifesto d’intenti”, dall’altra non voglio mettere in discussione i miei valori. Molti spesso si confondono i valori con la politica, ma in realtà questi vengono da dove e da come cresci, da quello in cui credi. Semplicemente, dico che, come un mulo, voglio resistere, continuare a tirare la carretta, anche in un mondo musicale che molto spesso non ha questa coerenza.

Con Multumesc, ci trasporti in un trascinante meltin’ pot musicale e non solo. Mi sembra particolarmente attuale raccontare questa piccola storia Rom, soprattutto in un periodo in cui la società italiana si è dimostrata tutt’altro che tollerante verso questo popolo: la rivoluzione che attendi è solo di tolleranza, o c’è anche la volontà di scuotere dall’immobilismo un Paese culturalmente fossilizzato?
Il mio discorso in realtà è più generale. Nessun Paese ha mai accolto bene i Rom. Qui volevo parlare di quello che è stato il viaggio fatto in Romania, l’anno scorso, dove sono stato a suonare ospite da questi Rom: siamo stati accolti nelle loro case, abbracciati e coccolati nelle loro case, riveriti con cibarie, vino e prelibatezze. Mi interessava contrastare come noi riceviamo loro quando vengono nel nostro Paese, sempre e solo con diffidenza. Questa è una caratteristica italiana, quello che viviamo adesso è un’escalation, ma è sempre stato così. Per quanto riguarda la rivoluzione, prendo a prestito una storia che ho imparato in Romania. Era la storia di questi paesi nei Carpazi, dove si racconta che stanno ancora aspettando la rivoluzione che ha trasformato il Paese da una dittatura comunista a un Paese democratico: da quando è caduto Ceauşescu a oggi dicono ironicamente che questa grande rivoluzione non l’hanno ancora vista. Io prendo spunto da questa riflessione e la faccio mia, e dico che da quarant’anni sono qui che aspetto la mia rivoluzione: ironicamente ho cantato e parlato di rivoluzione, ma quella che penso io è una rivoluzione sociale, di comportamento, che dovremo aspettare a lungo e che probabilmente non vedremo mai arrivare. La rivoluzione che aspetto è questa, quella che a un certo punto sembrava dovesse cambiare il Paese, che invece poi è peggiorato.

Ascoltando il disco, mi è apparso particolarmente curioso l’accostamento tra Il paese delle mummie e Io so chi sono, quasi fossero due facce della stessa medaglia. Senti davvero così distante l’abisso tra “il paese delle mummie”, tra la politica dei politicanti e la politica “vera”, della vita vissuta, delle persone? Ti sembra davvero tanto cupo e senza speranza lo scenario politico italiano attuale?
Personalmente non l’ho mai vista molto in negativo, anche cantando situazioni molto dure, molto negative. Sono sempre stato un ottimista. Devo dire che negli ultimi tempi sto diventando pessimista, non riesco a vedere la luce in fondo a questo tunnel. L’Italia ha preso una china che è peggio di quanto potessi aspettarmi: mi ricordo gli anni ottanta come un periodo di merda, fatto di gente con pochi ideali, con poca morale; gli anni novanta li ho passati pensando a un rinnovamento, e adesso vivo con l’idea che il rinnovamento non c’è stato e che è crollato tutto. I politici sono il peggio del peggio e sembra che il peggio del peggio debba andare in Parlamento. Non m’aspetto niente dalla politica, e la cosa che canto ne Il paese delle mummie è che non è più una questione fra destra e sinistra. Siamo portati a pensare: “se tu pensi così allora sei di destra”, “sei pensi così sei di sinistra”. La gente si deve accorgere che non è più una questione di destra e sinistra, è una questione di alto e basso: c’è della gente che sta in alto, sta bene, sta comoda, sono in pochi, si spartiscono la maggioranza delle cose, decidono loro per gli altri. Poi in basso siamo noi, siamo tutti noi, e ci stanno fottendo. Ci stanno fottendo pesantemente. E noi qui in basso siamo sempre più vicino a terra, siamo sempre più schiacciati e sempre più stretti.

Anche in Fantasmi e Onda granda continui a  parlare di  cambiamento. Come speri che cambino le cose?

Io spero che la gente dal basso capisca che è ora di cambiare, che è impossibile presentare dei politici che hanno ottant’anni, che è impossibile presentare un politico di settant’anni che si tinge i capelli, si presenta coi tacchi, si dà il phard. È impossibile votare una persona così.  È impossibile votare gente che si presenta con programmi vecchi di ottant’anni. Ci serve della gente giovane, della gente nuova, con nuove idee, perché il mondo sta cambiando radicalmente. Questi qua sono vecchi e bacucchi e non sanno che pesci prendere. Sono lì a fare i loro giochini dal post Seconda Guerra Mondiale, sono lì ancora a spartirsi il mondo tra Nato e ex-Unione Sovietica, sono ancora lì a fare i conti con queste cose. Questa gente deve andare in pensione, e deve essere mandata a casa dal basso, da gente giovane con nuove idee. Auspico una rivoluzione culturale, dove c’è la grande forza dell’indignazione a muovere i nostri sentimenti. La gente non è più capace di indignarsi, siamo disarmati: non protestiamo neanche più quando ci passano davanti in fila alle poste. I prepotenti hanno preso il sopravvento, e fanno i prepotenti sui deboli, e fanno i deboli con quelli più prepotenti di loro. La forza di indignarsi, di dire basta ai soprusi è una cosa necessaria in un paese come l’Italia. In un film di Michael Moore si diceva che in Francia i governi hanno paura della gente che protesta, facendo riferimento all’America dove la gente ha paura dei governi. Noi siamo messi molto peggio: abbiamo paura di protestare, e della gente che protesta per cause giuste.

Nel disco c’è tanta vita, in tutte le sue forme.  Mi ha colpito molto l’uso del dialetto emiliano nel testo di Olmo, canzone dedicata a tuo figlio, e vorrei chiederti se c’è un legame tra questa dimensione verace e “terrena” espressa attraverso il dialetto e la nascita di una nuova vita.

La cosa è anche un po’ più semplice. Io ho un figlio da circa nove mesi, ed è nato a Roma, e sta crescendo per lo più in Cociaria, perché la mamma è di Frosinone. Finché è piccolo passerà gran parte del tempo là. Io ho voluto cantare una canzone in dialetto a mio figlio per fargli capire che è sì in parte ciociaro, è nato a Roma, ma è anche in parte emiliano. E con quella lingua lì, che è sconosciuta per lui, in cui canto questa canzone, gli sto raccontando che c’è una terra che lo aspetta, una terra che ha una storia profonda, che ha radici profonde, che aspetta i suoi passi, e voglio comunicargli che è mezzo emiliano.

Anche qui, c’è un forte senso di appartenenza, di identità…
Sì, perché noi siamo le nostre radici, noi siamo il nostro vissuto, quello che ci hanno insegnato, quello che abbiamo imparato dalla gente che ci circonda, quindi siamo anche parte e figli della terra a cui apparteniamo, e questa cosa non ce la possiamo togliere. Ma dobbiamo essere capaci di capirlo e in forza di questo andare incontro e comunicare con le altre persone: identità e conoscenza, questa è la forza. Faccio un salto indietro di vent’anni, l’esperienza dei Modena City Ramblers è questa: noi siamo partiti come persone senza radici, siamo andati a scoprire le nostre in Irlanda. Le abbiamo scoperte prima con gli irlandesi, poi portandole a casa abbiamo scoperto le nostre, scoprendo che anche noi avevamo le nostre tradizioni, le nostre radici, la nostra terra, le nostre storie da raccontare. Siamo andati avanti a raccontare le nostre storie senza paura del diverso, anzi, apprezzando le storie diverse dalle nostre.

Da Best a Haka hai cantato lo sport in due maniere quasi opposte:  da una parte l’individuo che abbaglia le masse per le sue imprese sul campo e per la sua vita spericolata, e dall’altra la dimensione collettiva e viscerale del rugby, del vivere, lottare e morire. Quanto conta lo sport nella tua vita, cosa significa per te?
Chi mi conosce sa che non ho il fisico da sportivo, di sicuro. Però sono sempre stato grande appassionato, da ragazzo ho giocato a pallone, con pessimi risultati, ci tengo a sottolineare. Il calcio di questi ultimi anni mi ha allontanato da questo sport, che continua a interessarmi ma in minor maniera. Negli ultimi dieci anni ho scoperto questo sport che mi ha entusiasmato, il rugby, che secondo me mantiene ancora un’etica sportiva. Vedo ancora la volontà di lottare contro l’avversario, ma capendo che una volta finita la partita si va tutti insieme a fare il famoso terzo tempo, perché si è parte di una cosa unica. Questa cosa per me è il simbolo massimo di un’etica sportiva chiara, limpida, pura. È uno sport in cui ci si dà delle pacche vere, con scontri fisici notevoli, spesso ci si fa male. Ma se c’è una scorrettezza, non passa inosservata, ma viene ripresa e fatta pagare sia dall’avversario che dal compagno di squadra. Questa canzone è un inno agli amanti del rugby: io ho preso spunto dalla danza maori per farne una danza italiana, che richiama l’esaltazione del mettersi in gioco fino alla morte per poi alla fine dichiararsi vivo. Questa cosa mi esalta sempre, ogni volta che vedo una partita di rugby: sono cose ancestrali, che vengono dai campi di battaglia, e che per fortuna vengono sviluppati in uno stadio, dove poi alla fine si festeggia insieme, senza odio e recriminazione, con la consapevolezza che senza l’avversario l’altro non esiste. Nel calcio, questa cosa si è dimenticata: lì serve l’annientamento dell’avversario, per cosa poi non si sa.

Nel dvd allegato al disco è evidente come la dimensione live sia quella che vivi con più intensità, quasi che i dischi fossero delle “scuse” per andare in tournée. Ti sembra che questo corrisponda alla tua esperienza?

Sono molto più bravo a fare le canzoni dal vivo che in studio. Io ce la metto tutta, e mi piace anche molto lavorare in studio, ma mi rendo perfettamente conto che i brani dal vivo vengono meglio. Non so se è il pathos, l’atmosfera, il pubblico, l’amalgama che si crea in certe serate magiche, ma alla fine è vero che i live vengono molto bene. Però i dischi sono da fare, non solo per andare in tournée, ma perché è un mezzo per comunicare. Normalmente non sono abituato a fare una compilation di canzoni che ho scritto in un periodo, ma cerco di ragionare su quello che voglio comunicare: non sono dei concept, ma li ragiono come tali, e quindi dico “questo disco parlerà di questo”, e scrivo le canzoni in base a questo. Non scrivo una canzone sui fiori, magari bella o brutta, la prendo e la metto nel disco, ma parto da un concetto dell’album per poi scrivere le canzoni. Ho fatto così sia nei Modena che nella mia esperienza attuale. La verità è che i dischi mi piace farli, ma mi rendo conto che quando dal vivo è meglio.

In questi giorni parte la tua nuova tournée. Come sarà il tuo spettacolo? Sappiamo che le tue esibizioni saranno precedute da un set di Ettore Giuradei: com’è nata la vostra collaborazione artistica? Interagirete?
Io e Ettore Giuradei ci siamo incrociati a Milano qualche anno fa, all’epoca del mio primo disco da solista. A me è piaciuto subito il suo primo disco, mi sono innamorato della sua musica. Dopodichè, gli ho proposto di aprirmi i concerti in tour. A lui l’idea andava bene ed è nata questa cosa, la scorsa estate. Ci siamo trovati così bene che andiamo avanti anche in inverno: lui verrà col suo gruppo, in duo con suo fratello al pianoforte a fare l’apertura delle mie serate. Presenta i brani dei suoi dischi, di solito con grande successo, e ne sono molto felice. Voglio dare spazio a talenti che altrimenti di spazio ne avrebbe poco o farebbe fatica a trovarlo, però penso che sia uno dei modi per portare alla luce del materiale che di solito fa fatica a emergere. Porterò avanti questo sodalizio finché non sceglierà di muoversi sulla sua strada.   Il mio concerto è molto basato sui brani de “Il Mulo”, senza trascurare il disco precedente, più pezzi del mio passato che fanno parte del mio vissuto e del mio spettacolo. I pezzi del passato non li scelgo in  base a una richiesta, ma sono sempre brani che sento particolarmente vicini e miei, e che penso siano più adatti alla scaletta del caso, che viene formata di volta in volta sulla base dell’ultimo disco. Comunque ci saranno delle sorprese, che però non voglio svelare.



(4/11/2008)

Share |

0 commenti


Iscriviti al sito o accedi per inserire un commento


Altri articoli su Cisco

Altri articoli di Paolo D'Alessandro