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Lo Zoo di Berlino

Il nuovo che parte dal passato

Il Progressive (o il Prog, come più comunemente chiamato) è un genere che partito inizialmente in Inghilterra a metà anni Sessanta, dopo qualche anno si è diffuso rapidamente in Germania, Francia e Italia. Una frase didascalica che ci serve solo per dire che anche in Italia gruppi come P.F.M., Area, Banco del Mutuo Soccorso, Balletto di Bronzo, Le Orme, ecc. nacquero per rispondere all’esigenza di dare alla musica rock maggiore spessore culturale e credibilità, con ricerche armoniche più ricercate (e, diciamolo pure, più complicate da suonare ma straordinarie nella resa finale…) e caratterizzate da composizioni di suites di 20-30 minuti, creando un virtuoso richiamo d’esportazione. Come ogni genere, si è evoluto negli anni con nuove sfaccettature, influenzando la nascita di altri filoni come il Kraut rock, Alt rock, Avant-prog, Symphonic rock, Neo-prog e tanti sottogeneri.
Un tocco d’avanguardia a questo genere è dato, oggigiorno, dal collettivo di Lo Zoo di Berlino, formato principalmente da Andrea Pettinelli (tastiere), Massimiliano Bergo (batteria) e Diego Pettinelli (basso) a cui si aggiungono di volta in volta altri musicisti. Come nel caso del nuovo album Resistenze Elettriche che vede la partecipazione del mitico tastierista degli Area Patrizio Fariselli, che ripropone nella prima parte disco tre brani dello storico gruppo con un’esecuzione carica di improvvisazioni. Detto questo, Lo Zoo di Berlino non è soltanto un combo, ma un continuo laboratorio creativo deputato a produzioni che oltrepassano il semplice concetto di musica per ampliare la progettualità a vasto raggio. Da qui nasce l’esigenza di creare la casa di produzione musicale ‘Consorzio ZdB’, coinvolgendo numerosi professionisti famosi ed emergenti, col fermo intento di caldeggiare l’idea con passione e mestiere. Tutto ciò ha permesso al trio di Lo Zoo di Berlino di elaborare ed affinare un sound fragoroso e coriaceo, senza rinunciare a spaccati melodici. Insomma, un collettivo certamente da seguire, al quale formuliamo alcune domande per conoscergli meglio.
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C’è molta curiosità nel vostro nome: perché Lo Zoo di Berlino?
Da adolescenti ci colpì la storia di Christiane F, la protagonista del famoso film di inizio anni Ottanta; fu per noi uno spunto di riflessione interessante, perché leggendo la sua storia trovammo dei punti di contatto col suo disagio del vivere (l’aspetto legato alla tossicità è del tutto marginale, benché presente anche nella nostra generazione). Nonostante lei avesse vissuto in una grande Capitale europea, Berlino sul fine degli anni ‘70, e noi in provincia, attraverso il suo sguardo sulla città e società notammo - vent’anni dopo - che vivevamo le stesse condizioni. Per esempio il vissuto di adolescenti tra asfalto, cemento armato, luci al neon, lampioni sgarrupati, parcheggi e casermoni prefabbricati abbandonati (le classiche cattedrali nel deserto, preda dei reietti della società). Il tutto condito da olezzi sparsi nelle zone periferiche, tra poli industriali e stazioni ferroviarie. Una gioventù dunque, proprio come la nostra, abbandonata a sé stessa, senza un luogo di ritrovo, senza servizi e senza spazi dedicati ai giovani, privi delle condizioni base per una qualunque prospettiva (per incapacità politica delle classi dirigenti, sia chiaro). Per dei bambini è facile perdersi dentro certi meandri e diciamo questo non come giustificazione, ma solo per centrare il tema della riflessione. La storia di Christiane rappresenta anche il perbenismo di facciata e l’uso strumentale che viene fatto dei giovani e della loro condizione (in questo il libro da cui fu tratto il film è molto più chiaro): giovani additate/i come merce avariata, salvo poi, di notte, ambirle/i come preda per le proprie perversioni. Insieme alla storia, ovviamente, ci folgorarono le musiche del film, al punto tale da modificare il percorso della nostra vita, portandoci a trasformare la nostra passione in mestiere. Pensa a Bowie, Fripp, Eno e Belew tutti insieme appassionatamente nel brano Heroes… come potervi resistere?

Siete partiti con l’idea di uno studio di registrazione per poi ampliare l’offerta a management, produzione, booking per altri artisti, ed infine una vera e propria band: ma… vi bastano  24 ore?
In realtà le cose sono un po’ diverse, è la band che fonda lo studio ai suoi esordi. Ci dicemmo che come prima cosa dovevamo costruire una base operativa, altrimenti non avrebbe senso quello che avevo in testa di fare. Il management e la società di produzione fu il secondo passaggio, perché ci rendemmo conto che per muovere un po’ di interesse intorno alla band c’era bisogno anche di un’organizzazione. Ci dicemmo che insieme al fare musica, volendo stare nella tradizione del Rock, in un momento in cui chiudevano le etichette discografiche, le riviste, i club, i festival storici, i social alle porte che avrebbero cambiato tutto, l’unica strada da praticare era quella di immergere le nostre vite dentro tutto il meccanismo della produzione musicale.
In una prima fase ideammo un coordinamento a livello nazionale di gruppi emergenti motivati come noi. Fu una vera palestra e scuola. Via via ci fu una naturale selezione e le cose presero sempre più la piega di una struttura servizi anche per conto terzi e non solo più per noi. Impostammo il nostro progetto così, perché intuimmo subito che non bastava solo scrivere musica per la nostra generazione e poi per essere liberi di fare quello che ci piaceva, intercettando direttamente un pubblico a noi confacente, senza stare a pensare troppo alle logiche di mercato e marketing. Infine, di necessità abbiamo virtù: erogando servizi potevamo guadagnarci da vivere stando dentro la produzione musicale, a discapito delle nostre compagne ed amicizie più care. La nostra vita è completamente immersa nella musica, sia quella suonata che registrata, prodotta, organizzata. Avendo diversificato tutto un percorso, per noi formativo, ci ha permesso di poter vivere, non senza sacrifici, con la nostra passione. Ma dobbiamo stare sul pezzo, come si suol dire. Non possiamo dunque permetterci di perdere troppo tempo e non ci va di produrre canzoni di tendenza per l’editore di turno per pagarci da vivere, perché se avessimo voluto stare alle dipendenze di qualcuno ci saremmo trovati un altro lavoro ed avremmo portato avanti la musica solo come hobby.

Nella recente produzione, risulta coraggiosa la scelta di escludere nel sound chitarra e voce. Quali sono i motivi di fondo di questo indirizzo musicale?
Si riallaccia un po’ alle dinamiche della storia raccontata nella domanda precedente: in quest’epoca del nuovo millennio, con un’offerta artistica ricchissima e vasta, dopo che il secolo scorso in ambito musicale, in tutti i settori, ha prodotto una quantità inimmaginabile di musica, cosa potevamo inventarci di nuovo? Dunque, anche se quello che facciamo nuovo non è, per noi questo rinunciare ai riferimenti principe della rock band, cioè la voce e la chitarra (pensa a Plant e Page, Gillan e Blackmore, in qualche modo anche McCartney e Lennon) è stato ed è un modo di mettersi dei limiti, darsi condizioni sottrattive, sperimentando una composizione e perfomance sullo strumento senza far sentire la mancanza degli elementi accantonati. Una sfida che ci piace molto. Qualche settimana fa Pete Townshend degli WHO ha detto che le chitarre trainanti della scena rock hanno esaurito definitivamente le loro possibilità espressive. Abbiamo avuto la stessa intuizione!

Il nuovo album “Resistenze Elettriche”, uscito prima dell’estate, è concepito per il formato vinile, opportunamente diviso in due distinte parti: un ulteriore modo per promuovere maggiormente la causa del  ritorno al disco fisico?
Non solo, ma anche una passione del tutto personale, oltre ad una guida compositiva stimolante, pensando a come organizzare i due lati, sia musicalmente che per la prima e quarta di copertina per la grafica e comunicazione, o come fare il mastering per il vinile. Ci piace vivere la musica come degli artigiani, quindi tutti quegli aspetti che danno fisicità ad un pezzo ed un album. Per noi l’intero album è come se fosse un unico brano, diremmo perfino un’intera discografia potrebbe essere un unico brano. Oggi c’è questa tendenza ad assecondare i prodotti del marketing sui social, che sono importanti anch’essi ed hanno pieno diritto di esserci. Ma non può esserci solo quello, soprattutto se contribuiscono ad un annichilimento della cultura e delle giovani generazioni. Perché non smettiamo di fare libri visto che si legge poco? Oppure perché non smettiamo di studiare visto che c’è poco lavoro per chi studia. Beh, diremmo che sarebbe il caso di inventarsi qualcosa, no? È pur vero, purtroppo, che c’è chi vuole annullare il valore legale del titolo di studio... La cosa ci appare del tutto coerente con chi dice che non ha più senso fare cultura e certa musica, anzi la musica (se si pensano a certi prodotti dove si canta e suona a monosillabi). La cosa buffa è che se fai questi discorsi ti dicono che sei vecchio e non sei al passo coi tempi, perché i teenagers di oggi sono “altrove” e quindi è giusto che tu stia fuori da certi contesti media. Bah! Sui social circolano tutorial di addetti al settore degli spettacoli (piccoli o grandi che siano) che fanno workshop, dibattiti, tavole rotonde su come si debba fare la musica, confezionarla, idearla, venderla, facendosi forza sul fatto che “esperti studiosi” del settore dicono che album, discografia, musica sono finiti e che la musica va fatta diversamente da come si fa ora. Tutti un po’ affetti da questa sindrome da rottamatori. In realtà sono dati statistici di vendita, non solo della musica ma anche della tecnologia atta al loro ascolto.
Dunque, su questo malinteso chi intende fare business - anche il piccolo indipendente - cerca una linea editoriale coerente con quei dati. Ma nessuno di questi “portavoce” degli esperti studiosi, ha mai prodotto album importanti o esperienze vincenti. Noi dal canto nostro, magari stando al passo coi tempi e portando qualche piccolo elemento innovativo, vogliamo continuare a fare musica così come ce lo hanno insegnato i nostri Maestri (senza fare tutorial).

Siete d’accordo su chi sostiene che il vostro sia un disco “politico”, visto che le registrazioni del lato A sono state effettuate nei luoghi della Resistenza e vista la presenza, nella tracklist,  di una personale versione di Bella Ciao? (qui il video di un live con il famoso brano rivisitato)
Non vi è mai affiorato il dubbio che il rosso poteva non essere l’unico ‘colore’ di lotta?
La scelta del rosso è stata, per nostra cultura e sensibilità, del tutto naturale (scelta condivisa con l’autore dell’art work, Mauro Biani). È senza dubbio un colore suggestivo, che cattura attenzione (a proposito di marketing spicciolo e comunicazione…) e la copertina spara anche se la vedi da lontano. Ma c’è un particolare sull’illustrazione che sfugge spesso: la nonna rock, partigiana, che intreccia a maglia i fili spinati barricadieri (che riproducono un pentagramma) fa’ un drappo bianco.  È sì un album politico, anche se per noi “tutto” è politico, come vivi, i tuoi progetti, la visione della società, le scelte quotidiane che fai, quale musica pubblichi. In altre parole, la politica non è solo quello che osserviamo dalle azioni dei partiti e di chi governa. In un momento storico come questo, dove interi pezzi di classe dirigente politica a livello mondiale parla di muri, cortine, saccheggi, occupazione di territori, evocando guerre, minacciando di liberare profughi se qualcuno impedisce ad un Governo di occupare un altro Stato, nel nostro piccolo ci siamo sentiti in dovere di porre il tema. Sarà poco, inutile, velleitario? Ci andava di farlo e lo abbiamo fatto. I nostri capi di partito, di ogni schieramento, hanno invocato la fine del finanziamento pubblico ai partiti, impedendo così ai cittadini futuri di potersi organizzare e fondare altri partiti e godere dei finanziamenti per l’azione politica. Per ottenere cosa? Capi di partito e/o di movimento, finanziati da ex militari dei servizi segreti stranieri che guidano grandi potenze economiche? O Paesi che non vogliono altri competitors, insieme ai grandi gruppi finanziari, che per dirla tutta si chiamano capitalisti (usare la parola capitalista è meno verboso, no?). Alla faccia della sovranità popolare. Questo per noi è inquietante. Non vogliamo farla troppo seriosa la questione, ma possiamo usare il termine che ci sembra più appropriato e dire che tutto questo è inquietante? Ecco le ragioni di un album politico.

Gli argomenti di forte attualità sono effettivamente molti, ma su un tema specifico come quello della violenza sulle donne, ormai divenuta una piaga della nostra società (e in questo senso quindi fortemente politico), qual è il vostro pensiero?
È un tema davvero arduo ed esaurirlo in poche righe è impossibile, per non parlare delle soluzioni per sconfiggerlo. Quel che possiamo dire, per essere sintetici, senza eludere la domanda o tirarci fuori diplomaticamente, sono solo alcuni “spot”, temi, punti su cui riflettere e che secondo noi possono contenere le strade per giungere ad una soluzione o almeno a circoscrivere drasticamente il fenomeno. Anche rischiando di essere banali, pensiamo che la soluzione sia “solo” quella dell’istruzione ed educazione. Dunque, come dicevi giustamente, la soluzione è politica. Dobbiamo via via liberarci dalla logica tribale (matriarcato o patriarcato che sia) ed abbracciare una visione laica della vita, dove non ci sono ruoli subalterni ad altri. Ancora oggi una giovane donna che in un colloquio dice di volere un domani una famiglia è elemento di non assunzione, ti rendi conto di come stanno messe le cose? Ci sono aspetti sottili della nostra educazione e costume sociale, su cui le classi dirigenti politiche, per lo più conservatrici, che si susseguono da secoli, poggiano il loro esercizio del potere facendo una propaganda ipocrita di temi come la famiglia, l’unione del maschio e della femmina, il possesso della persona (mio marito, mia moglie, la mia famiglia, sempre tutto “mio”). Quando c’è questo diritto di possesso della persona, senza badare al fatto che prima di essere moglie è una donna che ha diritto ai suoi spazi, tempi, visioni, aspettative, progetti, sarà sempre difficile governare la violenza, a partire da quella sulle donne.

Nel brano Ganz Egal Marcela Lagarde (l’attivista politica messicana che coniò il termine “femminicidio”) collabora la celebre Christiane Felscherinow (meglio conosciuta come Christiane F.), la quale vi ha fornito delle ottakes di vecchie registrazioni (qui a fianco una sua foto presa dal suo profilo facebook). Come è avvenuto l’incontro?
L’incontro con Christiane F è avvenuto con uno scambio “epistolare” via email, molto piacevole e toccante. Ci siamo promessi di vederci quanto prima.

La presenza di Patrizio Fariselli degli Area (qui sotto unito al gruppo in un live), arricchisce ulteriormente l’elenco dei vostri interscambi collaborativi che annoverano, tra l’altro, i Nocenzi e Maltese del Banco (quest’ultimo scomparso nel 2015), Gianni Maroccolo ed  Ivana Gatti , che han permesso di rilasciare altri pregiati progetti come la trilogia “Rizoma”, il re-mastering  dell’Area album “1978…” e, prossimamente “POPS!”, il tribute-album al rock italico: ce ne parlate?


POPS!
è un progetto che volevamo dare alle stampe già dallo scorso anno, ma ha preso una piega così ricca di collaborazioni, idee e proposte che ci sta chiedendo molto più tempo del previsto per la produzione. Abbiamo pensato di tributare quel rock italiano - che possiamo ormai definire come storicizzato, ovvero il rock della seconda metà del secolo ‘900 - per creare una sorta di ponte tra quella generazione, la nostra e quelle più giovani, quelle future. La musica di quell’epoca, tra le tante, ci piace molto, ha dato lustro alla produzione musicale italiana, che ha viaggiato e viaggia per il mondo. Non è rimasto un fenomeno provinciale solo del nostro ‘Paesello’, ma ha varcato i confini nazionali, ispirando molti colleghi stranieri. Perché non valorizzarla, riproporla, con quei tocchi di innovazione proprio come si diceva nell’incipit di questa intervista? L’idea di fondo dell’album è fare dei pezzi storici ospitando con noi i membri originali dei gruppi che stiamo omaggiando, più altri special guest contemporanei a noi, proprio per rimarcare questo continuum generazionale e non rendere solo noi protagonisti, ma tutta una generazione di musicisti attuali, in uno spirito di condivisione con quella odierna scena italiana che stimiamo.

Visto il proliferare di tanti progetti che puntano più sulla parola (molto spesso futile, velleitaria e verbosa…), il vostro incentrare tutto sulla musica, come trasmettitore di sensazioni, sarà la linea che perseguirete anche nei prossimi lavori?
In quelli programmati, che sono già molti, certamente sì. Per il futuro in senso lato, chi può dirlo! Se le parole riprenderanno il loro valore e le voci si libereranno dagli incastri della scrittura, per muoversi come uno strumento, perché non fare un album anche cantato? Per ora è così: siamo su questo percorso di ricerca e finché non sentiremo esaurito questo avanzare saremo fissi sul bersaglio.

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