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Ellade Bandini

Un batterista italiano. Anzi, "IL".

Entriamo nel Teatro Colosseo a metà pomeriggio. La sala è praticamente deserta, semibuia, con solo alcuni addetti ai lavori che trafficano. I teatri vuoti sono stupendi. Il palco è invece illuminato e da poco stanno provando I Musici di Guccini, che stasera suonano qui a Torino. Da oltre una decade, la band che ha accompagnato Guccini per molti anni fa rivivere dal vivo le sue canzoni, interpretate dal chitarrista Juan Carlos Flaco Biondini. Sono qui per una intervista volante o quasi; mi siedo in prima fila in platea, un posto dove si sente e si vede male, sebbene siano i più costosi.
Mentre attendo il mio turno per parlare con il batterista Ellade Bandini mi assaporo le prove, che non sono brevi. Prima aggiustano i suoni, i monitor e poi si entra nei brani, suonandone spezzoni ma qualcuno anche intero. Assistere alle regolazioni varie, per il palco e per la sala, ha comunque un suo fascino. Il clima è sereno, con battute di spirito specie da parte di Flaco. Sono musicisti di lungo corso, con curriculum importanti, stiamo parlando di ‘giovani’ degli anni Quaranta: Vince Tempera (tastiere), Antonio Marangolo (fiati), Ellade Bandini (batteria), Juan Carlos Biondini (chitarre) a cui si aggiunge Pierluigi Mingotti (che ha sostituito Ares Tavolazzi al basso), unico fuori quota.
Terminate le prove mi avvicino al proscenio, Ellade mi viene incontro, mi presento e ci sistemiamo in platea. Avere di fronte un pezzo di storia della musica italiana all'inizio crea sempre un certo imbarazzo, perché il punto è: “da dove inizio?”. Mi viene in soccorso il sorriso contagioso del musicista romagnolo e tutto diventa più facile.
 

 

Ti ricordi la tua prima batteria, da adulto diciamo?
Ho una buona memoria, era una Trixon, tedesca. Avevo diciassette anni, suonavo in un locale molto noto dalle mie parti, il Tropicana. Suonavamo dalle ventuno alle quattro di notte. Avevo iniziato sentendo i dischi di allora, dove i batteristi non avevano l'importanza di oggi. Sto parlando delle canzoni di Gino Latilla o Carla Boni. Poi sono passato al Night Club e ho iniziato a divertirmi di più…

Un batterista cambia spesso i pezzi o la marca?
Da giovani si fanno molti errori e si vuole sempre cambiare, anche quando le differenze sono minime o non ci sono proprio. Si pensa di emergere, di farsi notare meglio possedendo la batteria più bella, la marca più costosa.

Quando e cosa ti ha attratto verso la batteria?
Da bambino io volevo diventare un cantante, però quando avevo tre anni mio zio mi aveva portato sulle spalle in una balera in cui suonava un'orchestra; il batterista del complesso mi aveva fatto sedere alla batteria, dopo aver notato che lo guardavo rapito. Forse è stato un segnale. Poi da ragazzino sono rimasto affascinato da vari film nei quali si sentiva molto la batteria, oppure si vedevano batteristi, anche famosi, in azione. Mi vengono in mente Tokyo di notte o Ritmo diabolico (è la biografia del mitico Gene Krupa ndr). Io sono autodidatta, sono poi andato a prendere delle lezioni più o meno a quattordici anni.

 

La sala da ballo è stata una buona palestra?
La sala da ballo mi ha insegnato tutto. Ho suonato più di dieci anni nelle sale, ci suonavo ancora anche quando facevo già dischi. Se la gente non ballava significava che qualcosa non funzionava e bisognava cambiare arrangiamento. A me hanno insegnato il tempo giusto, adatto. Non bisognava suonare troppo forte e coprire l'orchestra. Facevamo a volte tre concerti per sera, spostandoci tra paesi vicini. Si cominciava da quello che pagava meno. Naturalmente erano molto più brevi rispetto ad oggi.

Nella tua carriera hai suonato per moltissimi cantanti e cantautori. Alcuni diventati importanti, altri scomparsi o quasi, pur non avendo magari nulla di meno rispetto a quelli diciamo fortunati e bravi. La prima che mi viene in mente è Carmen Villani, dove tu eri il suo batterista.
Eh, Carmen era una grande voce, una delle migliori. Ma rispondendo alla tua domanda ci sono varie cose che debbono girare per il verso giusto: conta il rapporto con il pubblico, i rapporti con le case discografiche, i contratti, l'impresario, eccetera.

Ma in quanti dischi hai suonato lo sai? Provo a ricordare qualche nome oltre i “soliti” con cui vieni affiancato, De André e Guccini in primis. Dico Mina, Zucchero, Pierangelo Bertoli, Bennato (con cui hai fatto i megalive negli stadi ad inizio anni ’80), Paolo Conte, Venditti, I Giganti (nello splendido album Terra in Bocca), Anna Oxa, Al Bano e Romina (con cui hai girato l’Europa e non solo), Ron, Renato Zero, Vecchioni, Gino Paoli, Branduardi…
Io non lo so in quanti dischi troviamo il mio nome nei crediti. Dicono, i giornalisti o qualcuno di simile, diverse centinaia, anzi più verosimile è che arriviamo a quattro cifre. Mi piace però ricordare che uno dei miei primi dischi incisi è stato Io mi fermo qui di Donatello.

Quando si suona per qualcuno che quindi ti paga per la tua prestazione professionale, quanto libertà c'è?
Dipende. Molti anni fa c'era chi voleva ragazzi giovani in studio, che dessero suggerimenti, che ci mettessero fantasia. Questo anche per distinguersi dai professionisti, che suonavano con lo spartito ma erano freddi e compassati, non uscivano dal seminato diciamo. Con il cantautore in genere c'è una libertà jazzistica, cioè molta libertà. Io seguo il testo del brano, cosa comunica. E osservo le dinamiche, per dare il contributo giusto al significato. Ad esempio, quando dovevo andare in studio per Guccini, io andavo prima a casa sua, a Pavana, dove lui spiegava ogni canzone, per capire quale atmosfera di batteria fosse necessaria. Poi gli artisti cominciano a conoscerti meglio, naturalmente muovendosi con coerenza e giudizio. Se il batterista del disco non ero stato io e lo ero poi dal vivo, cercavo di prendere il meglio delle ritmiche suonate dai miei amici e colleghi e ne costruivo una precisa per il concerto.

Domanda che non può mancare: i tuoi gusti musicali dove spaziano?
A me piace la melodia; mi sono appassionato al soul, ma ho conosciuto personalmente anche Jan Paice, il fortissimo batterista dei Deep Purple. Nei dischi ho sempre cercato di non fare le stesse cose, cambiando magari anche solo una piccola cosa.

 

E qualche batterista del passato o del presente che hai amato?
Sicuramente Gene Krupa, poi ero un fan di Buddy Rich, dei batteristi di James Brown. Mi riconosco nello stile di Steve Gadd (in alto nella foto), per me un musicista eccezionale.

Ti piace insegnare?
Non mi piace insegnare, l'ho fatto ma non mi ci ritrovo. Quando vengono dei ragazzi da me a casa, preferisco far loro ascoltare dei dischi, commentarli insieme e provare ritmi. Essere anche un pochino personali, non fare sempre gli stessi lanci, quelli che si sentono sempre nei dischi.

Ecco, l’ultima domanda vorrei fartela proprio su questo: come giudichi i batteristi di oggi?
Mi capita spesso di ascoltare batteristi bravi, che però suonano per se stessi o per mettersi in mostra agli occhi di altri batteristi. Si fanno i complimenti o le critiche tra loro stessi sui social. La batteria è uno strumento primordiale, istintivo. Spesso ci sono batterie che servono solo per riempire i palchi. Tanti pezzi possono servire in determinate situazioni o per determinati gruppi che hanno proprio un certo tipo di progetto sonoro e musicale, penso ai Rush ad esempio. Per situazioni normali bastano pochi elementi, scegliendo tra suoni chiari e suoni scuri (piatti e tamburi ndr). Chiudo dicendo che se ci si vuole creare una carriera, l’approccio giusto per un musicista - sia che si tratti di un batterista o meno – è saper dire anche dei no. Lavorare è fondamentale per tutti, ma questo non deve far scendere il livello musicale, accettando ad esempio di accompagnare qualcuno o qualcuna sapendo già che non ti potrai esprimere al meglio. Non è facile, lo so, ma infatti il nostro mestiere non è rose e fiori come magari si crede.

 

La cena incombe per I Musici. Banale dirlo, ma sarebbe stato bello rimanere a parlare ancora a lungo. Anche perché quando si ha a che fare con un personaggio come Ellade, dopo dieci minuti sembra di conoscerlo da dieci anni. E allora l'intervista si trasforma in una chiacchierata, dove le domande preparate saltano, ne nascono di nuove, o si mescolano in modo imprevedibile. Ci salutiamo cordialmente ed è ancora il suo sorriso a lanciarmi un messaggio chiaro: ok, nuovo appuntamento per una seconda puntata.

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