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The Crowsroads

Sulle "corde" del blues

Le radici del blues sono da ricercare tra i canti delle comunità di schiavi americani che, a partire da queste umili origini, crebbe fino a diventare il genere, la forma di musica popolare, forse più diffusa ma certamente più registrata al mondo. Un processo che ha finito per influenzare fortemente, o addirittura a far nascere, molti degli stili della musica popolare moderna e diventando, a partire da metà anni Cinquanta, uno dei fattori d'influenza dominanti nella musica. Una premessa stringatissima solo per dire che anche in Italia questa “influenza” ha dato buoni frutti e, catapultandoci nella stretta attualità, tra i “nuovi” e validi rappresentanti italici di questo genere annoveriamo i The Crowsroads. Si tratta di un duo bresciano di folk-blues, composto dai fratelli Matteo e Andrea Corvaglia e l’occasione di incontrarli nasce per conoscere meglio loro e On the ropes, il primo album completamente di inediti uscito da pochi mesi per l’etichetta Vrec (distribuzione Audioglobe), che arriva a tre anni di distanza da Reelsun lavoro che conteneva 11 cover e 3 brani propri. E anche se per dovere di cronaca va ricordato che nel 2012 era uscito un Ep con alcuni inediti, è con “On the ropes” che arriva a chiudere un cerchio. Finalmente adesso c’è un album vero, con canzoni maturate pian piano come la pasta di una pizza, a cui sono stati aggiunti gli ingredienti giusti, incroci d’anime e sudori da palco, il tutto per convogliare in studio le energie giuste e trovare così la quadra realizzativa. Grazie anche ai pregiati apporti dei producers Antonio Giovanni Lancini e Paolo Salvarani, (caparbi nel credere anni fa nelle potenzialità di questi due artisti in erba, che all’epoca erano poco più che liceali… qui una foto dei due nel 2014...) che per la registrazione si sono serviti delle sapienti mani di Paolo Costola nei MacWave Studios di Brescia, senza dimenticare il fondamentale apporto di Lorenzo Cazzaniga che ha mixato e masterizzato il tutto dando il giusto “suono” (già con Negramaro, Baglioni e altri) e il bel lavoro come graphic design di Alex Rusconi
Questa una parte della squadra di lavoro che ha consentito ai The Crowsroads di confezionare un disco come lo avevano sempre sognato. In primis stringendo collaborazioni con fior di musicisti, tra i quali Phil Mer alla batteria e Michele Bonivento alle tastiere e poi Sarah Jane Morris (voce unica e riconoscibile tra mille), Frankie Chavez (talentuoso polistrumentista portoghese in forte ascesa nel mondo rockblues europeo) e Jono Manson (stimato chitarrista, arrangiatore, produttore, che affianca alla sua attività solista anche una fitta rete di collaborazioni con gran parte del mondo rockblues italiano). A questi nomi vanno aggiunte le preziose chitarre di Michele ‘Poncio’ Belleri (anche dobro), il basso di Andrea Gipponi e Stefania Martin a dare colore alle voci nei cori.
(nella foto al centro una pausa durante le registrazioni di "On the ropes", da sinistra Matteo, Antonio Lancini, Stefania Martin, Andrea, Paolo Costola e Paolo Salvarani, mentre qui sotto la locandina della "prima" uscita live del nuovo disco)
Prima di formulare qualche domanda a Matteo e Andrea, ricordiamo che seppur giovanissimi, si sono già tolte molte soddisfazioni, vincendo premi e ricevendo vari riconoscimenti, a cui ci piace aggiungere anche la loro vittoria nel Premio “L’artista che non c’era” organizzato da L’Isola che non c’era, in una bellissima finale tenutasi al CPM di Milano nel 2016.
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Partiamo proprio da qui ragazzi: che ricordo avete di quella vittoria?
Ricordiamo ancora quel giorno come uno dei momenti significativi del nostro percorso musicale fino ad oggi! In realtà alla finale siamo arrivati senza particolari aspettative; la vittoria è stata una bellissima sorpresa. Come è stata una bella sorpresa scoprire ne L’Artista che non c’era un concorso musicale che mettesse davvero al centro la musica e le canzoni; un Premio che sa guardare in prospettiva, offrendo ai concorrenti concrete opportunità di crescita.

Per consentire di farvi conoscere meglio dai nostri lettori, potete spiegare le origini e la vostra formazione musicale?
Abbiamo iniziato a suonare un po’ per caso tra il 2009 e il 2010; il primo è stato Andrea, anche se è il più giovane, con l’armonica. Tra i nostri riferimenti c’erano principalmente il blues (a cui, come tanti, eravamo arrivati grazie al film ‘Blues Brothers’) e i cantautori americani inglesi (in particolare Cat Stevens, Bruce Springsteen, Bob Dylan). Pian piano abbiamo iniziato a suonare e cantare le prime cover con chitarra e armonica, e quasi subito abbiamo provato a scrivere brani nostri. Quattro di questi sono finiti in un EP, “Some Sky Inside My Pocket” (2012), prodotto da Antonio Giovanni Lancini, da allora sono arrivati altri due album, "Reels" nel 2016 (in cui c'era il brano Janis dedicato all'icona americana in cui compare anche la splendida voce di Boris Savoldelli, qui nella foto, incredibile artista famoso in tutta Europa, ndr) e poi questo nuovo nel 2019. In mezzo tanti concerti, prima nella nostra città, Brescia, e poi sempre più lontani da casa.

“On the ropes” contiene interamente brani inediti e, per la produzione, vi siete affidati alle mani esperte di pregiati produttori citati in premessa. Quali sono stati i suggerimenti più importanti che vi hanno dato la consapevolezza di aver raggiunto l’amalgama che volevate?
Con Antonio Lancini (che spesso ci accompagna anche nei live ed è prezioso in studio, essendo un polistrumentista e un ottimo percussionista) e Paolo Salvarani lavoriamo da molti anni e anche se c’è una grande intesa, la realizzazione del disco è stata lunga e impegnativa, sia dal punto di vista artistico che da quello logistico. D’altronde siamo una produzione indipendente e oggi le difficoltà da affrontare in questo senso sono moltissime. Loro hanno il merito di essere andati avanti sempre con grandissima determinazione e di averla trasmessa anche a noi. Anche quando alcuni obiettivi sembravano impossibili da raggiungere, loro ci hanno convinto a crederci; pensiamo ad esempio a tutte le persone coinvolte nell’album, dai musicisti ai fonici fino agli ospiti. Un nostro pensiero ricorrente durante i mesi della lavorazione era: davvero tutte queste persone stanno lavorando alle nostre canzoni? È stata una cosa bellissima, e di questo siamo immensamente grati ad Antonio e Paolo.

Nella tracklist riprendete un brano dei ‘mitici’ fratelli La Bionda Ogni volta che tu te ne vai, volturandola in Every time that you walk out the door: come nasce l’idea e come è scaturito l’incontro con Carmelo e Michelangelo? Quando gliela avete fatto sentire è piaciuta subito oppure hanno suggerito delle modifiche?
L’incontro con Carmelo e Michelangelo è avvenuto grazie a Franco Zanetti, che ci ha anche fatto conoscere i primi due capitoli “cantautorali” della discografia dei F.lli La Bionda, risalenti alla prima metà degli anni Settanta. Ogni volta che tu te ne vai, che è tratto dal secondo dei due album (“Tutto va bene”), ci ha colpiti subito per la sua melodia affascinante e per il suo testo, che oltre a fare uso di una serie di immagini molto incisive ha anche una metrica particolarissima. Abbiamo fatto sentire a Michelangelo e Carmelo (qui insieme nella foto) una prima versione della nostra cover nel corso di un bellissimo pomeriggio trascorso a casa loro, nel quale abbiamo parlato a lungo e ci siamo scoperti molto simili nonostante la distanza generazionale. Hanno ascoltato con attenzione e ci hanno dato il consiglio di dare una forma totalmente nuova al brano, magari puntando sul suono dell’armonica, e al contempo di preservarne la delicatezza originale. È quello che abbiamo fatto lavorando poi in studio con Antonio, che ha curato l’arrangiamento, e Paolo. Nel gennaio 2019 è uscita finalmente la nostra versione in italiano, mentre in “On The Ropes” è stato appunto inserito un riadattamento con un nuovo testo inglese che abbiamo realizzato cercando di rispettare il più possibile i ritmi e i significati di quello originale, davvero troppo bello per essere modificato. Every Time That You Walk Out The Door è nata quindi in studio durante le sessioni dell’album, grazie all’apporto prezioso di Poncio Belleri, Michele Bonivento, Andrea Gipponi e Phil Mer.

Riteniamo che Razor wire sia, forse, il brano che distingue maggiormente la vostra cifra stilistica, per tecnica, alternanza corale ed evidente fluidità. Siete d’accordo sulla nostra analisi o ci sono altre tracce in cui vi riconoscete di più?
Ci piace moltissimo quella canzone! E sicuramente ci rispecchia alla grande. Però non sapremmo davvero scegliere tra le tracce dell’album… Ci sembra che funzionino molto bene insieme, e che tutte contribuiscano ugualmente a dire qualcosa su di noi e a mettere in luce i diversi aspetti della nostra personalità musicale, da quelli più “introspettivi” a quelli più scanzonati.

Sappiamo che siete molto attenti al sociale, visto che in passato due vostri pezzi sono stati adottati come colonna sonora di due cortometraggi che trattavano argomenti sensibili: Polvere, incentrato sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia e Selfie’, pellicola nata per contrastare le distrazioni al volante ed adottato dalla Polizia Stradale per le campagne di prevenzione. Ce ne parlate più dettagliatamente? Vi sono state chieste altre collaborazioni di questo tipo?
In entrambi i casi si è trattato di collaborazioni con delle scuole medie della provincia di Brescia e il nostro compito è stato quello di scrivere e suonare dei brani strumentali che potessero accompagnare le scene degli elaborati realizzati da studenti e insegnanti. L’esperienza è stata interessante sotto tutti i punti di vista, sia perché per la prima volta ci siamo confrontanti con la musica strumentale, sia perché a noi piace molto il fatto che la musica possa contribuire a veicolare dei messaggi e quelli erano indubbiamente messaggi importanti. Nel corso degli anni anche un’associazione veronese, ‘Memoria Immagine’, ha incluso dei nostri brani già pubblicati (Lucy e Athens) in due suoi cortometraggi, uno sull’immigrazione nella città di Verona e uno sullo storico lanificio veronese Tiberghien. Ci piace molto anche l’idea di scrivere avendo già un tema specifico al quale attenerci; è successo per esempio quando abbiamo lavorato a Pirate Flag, un brano che abbiamo scritto con Antonio Lancini e Ricky Rossini per la colonna sonora di ‘Rosso Mille Miglia’, un film sulla celebre corsa automobilistica, e per la prima volta abbiamo parlato in una nostra canzone di automobili e autostrade.

A proposito di collaborazioni, è inevitabile parlare di quelle importanti che figurano nell’album, a cominciare da Sarah Jane Morris e proseguire col polistrumentista cantautore Frankie Chavez e col produttore americano Jono Mason.  Come siete riusciti ad arrivare a loro?
È stato frutto di un grande lavoro dei “soliti” artefici, i veri architetti del nostro progetto, Paolo Salvarani e Antonio Lancini, che sono riusciti a fargli avere il nostro materiale. Tutti e tre i nomi che hai citato hanno accettato molto volentieri di collaborare, mostrandosi delle grandi persone, oltre che degli artisti fenomenali. Il loro contributo è tra i fiori all’occhiello del disco e ci inorgoglisce molto. Frankie l’avevamo già incontrato alcuni anni fa, quando avevamo aperto il suo concerto allo Spirit de Milan; con Jono ci siamo visti giusto qualche settimana fa, quando abbiamo aperto il concerto suo e di John Popper (una serata davvero indimenticabile) e abbiamo finalmente replicato il nostro duetto dal vivo; con Sarah ci siamo incontrati a Milano alcuni giorni dopo che lei aveva registrato le sue parti vocali a Londra, ed è stato un incontro arricchente come pochi.

Nelle dodici tracce dell’album si apprezzano stilemi di blues, folk, country e ciò denota, senz’altro, le numerose influenze derivanti dai vostri ascolti.  All’inizio della chiacchierata avete ricordato alcuni nomi che avete ascoltato nei primi anni del vostro percorso artistico, ma più in generale quali sono i grandi nomi che, imprescindibilmente, vi hanno ispirato maggiormente?
I nostri primi riferimenti musicali sono stati i cantautori americani e inglesi degli anni Sessanta e Settanta, da Bruce Springsteen a Tom Waits, da Elton John a Bob Dylan, con una certa attenzione anche per il mondo del blues. Poi negli anni abbiamo ovviamente allargato la cerchia gli ascolti. Come gusti condivisi, tra noi due gli artisti prediletti sono The Band e Creedence Clearwater Revival, con le loro sonorità ruvide e ridotte all’essenziale, a nostro avviso ancora molto attuali. Oggi ascoltiamo praticamente di tutto, dal rock al pop, dal punk al reggae, anche se ovviamente ognuno di noi due ha poi i suoi gusti specifici. Tra gli artisti “odierni” ci piacciono molto Hozier, Bon Iver, The War On Drugs, ma abbiamo anche una predilezione particolare per le band americane degli anni Novanta: Blues Traveler, Wilco, Dave Matthews Band, Pearl Jam…

Nel 2015 c’è stata la partecipazione (seppur breve) a X-Factor. Cosa vi ha lasciato quell’esperienza e cosa ne pensate, nello specifico ed in generale, dei talent-show? Possono davvero aiutare gli artisti, visto che solo in pochissimi si affermano, mentre la maggioranza viene bruciato all’istante, magari sottovalutando frettolosamente il potenziale talento senza concedergli una seconda chance?
L’esperienza (che è stata davvero fugace: siamo usciti al Bootcamp!) è stata per certi aspetti interessante, in particolare perché ci ha dato modo di osservare da vicino il funzionamento di un grosso programma televisivo. Crediamo che X-Factor sia sostanzialmente questo, una trasmissione televisiva, che peraltro offre un intrattenimento ben realizzato. Ma i requisiti di un concorso musicale vero e proprio secondo noi sarebbero altri: al centro dovrebbero esserci la musica e le canzoni. Una serie di cose, dall’assoluta preponderanza delle cover al fatto che ai concorrenti sia chiesto nel corso delle puntate di confrontarsi con brani radicalmente differenti tra loro dal punto di vista stilistico, ci fanno pensare che nei talent ci sia il rischio che gli artisti in gara (tra cui ci sono anche dei veri fuoriclasse) non riescano mai a esprimere la loro reale personalità artistica e che il pubblico non possa mai davvero metterli “a fuoco”. E la componente “reality” può finire per distrarre dalla musica, che dovrebbe teoricamente (anzi, praticamente) essere centrale.

Dopo "On the ropoes" quali sono i prossimi steps che dobbiamo attenderci dai The Crowsroads e infine, ci sono particolari messaggi che volete far arrivare e che, forse, non sono stati recepiti del tutto? Ah, poi un’ultima cosa: perché avete intitolato l’album “Alle corde”?
A brevissimo uscirà finalmente il videoclip del primo singolo tratto dal disco, Foxes! Poi speriamo di portare il disco in più posti possibile, proseguendo a lungo con la serie di concerti iniziata appena dopo la pubblicazione, che ci piace chiamare ‘On The Ropes Tour’. Sarà un modo per testare l’effetto delle nuove canzoni sul pubblico e per trasmettere emozioni live, che è la cosa che ci piace di più. Il disco si chiama “Alle corde” perché ci sembrava un titolo capace di rendere l’idea della nostra urgenza di comunicare “mettendoci la faccia”, cioè parlando finalmente con i nostri brani. Che è quello che speriamo di fare anche dal vivo.

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