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  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

A Toys Orchestra

...A Toys Orchestra, da La Gatta Cenerentola agli studi di Berlino: è il “Butterfly Effect”

Giunti al loro sesto disco, sedici anni di vita del gruppo ed età media ancora attorno ai 35, gli ...A Toys Orchestra sono una band tra le più intriganti e raffinate nel panorama musicale nostrano. Il fatto di utilizzare esclusivamente la lingua inglese e un sound fortemente legato alla storia della canzone anglofona spiegano probabilmente il ritardo distratto con cui noi dell’Isola – e forse pure una certa fetta della critica musicale italiana – ce ne occupiamo in modo più approfondito. Questo e altri argomenti hanno affollato la nostra interessantissima chiacchierata con le “voci” del gruppo, Enzo Moretto e Ilaria d’Angelis, in occasione dell’uscita dell'ultimo lavoro della band “Butterfly Effect”.

Ragazzi, cominciamo a parlare della vostra storia, iniziata quando eravate davvero giovanissimi, molti anni fa.
Ilaria: Sì, esistiamo dal 1998...

Enzo: Veniamo dalla provincia del Sud Italia, un piccolo borgo di mare che si chiama Agropoli. I tempi sono cambiati molto velocemente, ma quando eravamo degli adolescenti non c’era un contatto con il mondo esterno così vasto come è oggi grazie alla rete; internet era una cosa che avevano in pochissimi, nei primi anni Novanta, forse nessuno di noi, come lo stesso un cellulare... Era una realtà molto spoglia, dove forse l'unico vantaggio erano le bellezze naturali. Però c’era in noi un’urgenza interiore che in qualche modo andava sfogata. Ci siamo incontrati, e visto che non c’era niente ci siamo creati noi qualcosa, che sono stati gli ...A Toys Orchestra. Ci siamo uniti e abbiamo iniziato a creare musica. Sono passati tanti anni, è vero, anche se poi in realtà quell’input iniziale è rimasto lo stesso.

Tu Enzo, in particolare, avevi già un gruppo, i Mesulid, di cui faceva parte anche uno di voi...
Enzo: Sì, io e Raffaele (Benevento, il bassista del gruppo, n.d.r.). Diciamo che quel gruppo è stato l’approccio adolescenziale alla musica. Eravamo ancora molto coinvolti dagli anni Novanta americani, da quella scena che partiva dai Nirvana e coinvolgeva Seattle e Washington D.C... Eravamo là a emulare quel tipo di scena, volevamo essere noi i Nirvana, sai... un approccio molto da ragazzini. Quella band si è sciolta anche perché ci stava un po’ stretta. Gli anni Novanta erano finiti, dovevamo liberarci da questa piccola gabbia, e abbiamo provato a reinventarci con quelli che erano gli input che venivano dai nuovi ascolti. Poi, sul finire degli anni Novanta, quando un’epoca enorme - forse l’ultima epoca rock a livello generazionale - è finita, ci sono state tante novità, sono arrivate tante nuove band, e noi siamo stati presi dallo “stream”...

Vi siete espressi solo in inglese fin da subito. Una scelta certo coerente con il genere di musica di cui vi eravate nutriti; ma quello che mi ha sempre stupito è la padronanza di quella lingua che dimostri tu, che sei l’autore dei testi. Cosa assai meno scontata: non molte band italiane che cantano in inglese mostrano la stessa attenzione alle parole.
Enzo: Non so, forse perché ho avuto sempre un’attenzione maniacale al significato del testo in sé, quindi ho cercato sempre di far sì che i testi non perdessero in brillantezza o in impatto perché legati a una lingua che non è la mia, per cui in genere difficilmente si riesce trovare la forma di espressione naturale. Ho fatto una sorta di lavoro che poi stranamente è venuto molto spontaneo. La stessa cosa che mi dici tu adesso me la diceva, all’epoca delle registrazioni di “Technicolor Dreams”, il nostro terzo disco registrato con il produttore americano Dustin O’Halloran, lui mi diceva la stessa cosa: «Non riesco a capire come sia possibile che tu riesca a pensare questo genere di cose in inglese». Non lo so, non credo ci sia un vero e proprio motivo; il mio approccio con la scrittura è avvenuto fin da subito in inglese, per cui è un po’ come imparare a scrivere con la sinistra o con la destra. Io sono già mancino di mio (ride), quindi ho imparato subito a generare la scrittura in maniera naturale in un’altra lingua. È ovvio che oggi, per quanto viva con una certa dimestichezza l’inglese, mi rendo conto che se ti semplifica la vita a livello sonoro, può complicartela a livello espressivo, quindi devo fare comunque un certo lavoro.

Leggo ovunque che non hai intenzione di scrivere testi in italiano, o che comunque non è nei tuoi orizzonti, al momento. Questo fa sempre parte della tua formazione, e quindi ha a che fare con il discorso della spontaneità che facevi ora?
Enzo: Da una parte sì, ma non ti nego che la mia è un po’ quella che da noi si chiama “cazzimma”. Perché mi ha irritato questo continuo domandarmi dell’italiano, nell’arco del tempo. Con gli A Toys abbiamo fatto negli anni tanti piccoli traguardi, un po’ alla volta, e raggiunto delle mete che ad oggi sembrano quasi pionieristiche, perché anche se ci sono state altre band italiane che cantando in inglese hanno raggiunto dei risultati ottimi, noi quantomeno per longevità e per la presenza “sul campo” da così tanto tempo ci siamo creati una storia così importante facendolo in inglese che quando qualcuno mi domanda oggi di passare all’italiano la vedo quasi come una sorta di affronto, motivo per cui sono lì a rispondere sempre in maniera negativa. Poi è vero che abbiamo cambiato mille volte le nostre idee, e potrebbe succedere che un domani cantiamo in italiano, ma non deve accadere attraverso una forzatura, un pensiero logico che suonerebbe molto “furbo”.

Ha tutta l’aria di essere anche una battaglia culturale...
Enzo: Assolutamente sì. In Italia abbiamo bisogno di erudirci sotto certi aspetti. Smettere di pensare che chi canta in inglese è solo un emulo, uno che sta giocando a fare “l’ammericano”, quando invece tantissimi altri Paesi dell’Europa hanno delle band che sono diventate enormi... Non so, pensa alla Francia dei Daft Punk, oppure a Björk che viene dall’Islanda... Sono assolutamente credibili, perché possono godere del doppio passaporto: Biörk è islandese ma è anche europea, e in Europa come in tutto il mondo si utilizza l’inglese come lingua universale. Non vedo perché in Italia non riusciamo ad abbattere questo pregiudizio.

Ilaria: È anche un po’ offensivo verso la musica in generale pensare che ci siano dei meccanismi per cui due più due fa quattro. Se fai un progetto musicale in inglese e non hai nessun risultato o riscontro, è normale che qualcuno ti dica che non era il caso, e di provare a farlo in italiano. Ma se ti dà dei risultati importanti e ti continua a dire di farlo in italiano, vuol dire che pensa che due più due fa quattro, cioè che comunque se lo fai in italiano avrai più riscontro.

Enzo: Ma poi è svilente per la ragione iniziale, che è quella di dover cercare per forza un compromesso. Non siamo degli industriali: c’è un’urgenza comunicativa che è molto più nobile rispetto al dovere arrivare per forza “lì”.

Viceversa, l’inglese può aprire molte porte a livello comunicativo, essendo compreso da una fetta di pubblico enormemente più ampia. E in merito la vostra storia parla chiaro.
Enzo: Infatti questo ci ha concesso di muoverci anche fuori dai confini, di collaborare con il cinema americano, ad esempio (per il film di Jess Manafort “The Beautiful Ordinary”, n.d.r.). Insomma, l’unica verità che c’è di fondo è che questo pregiudizio ci tiene attaccati a una catena. Noi siamo lì a provare a spezzarla. Senza fare voli pindarici, senza immaginarci di suonare negli stadi inglesi, sappiamo che dobbiamo costruirci piccoli risultati alla volta. Provando a liberarci di certi schemi senza per questo dover essere degli esterofili malati e ossessionati da questo pensiero.

I tuoi testi non solo sono trattati con molta attenzione, ma mi sembra che abbiano anche una loro coerenza all’interno di ciascun album. È un’impressione corretta?
Enzo: Sì: per ogni album cerco un filo conduttore, bypassando però il concetto di “concept” che è qualcosa di troppo pretenzioso. Però il filo conduttore, qualcosa che debba mantenere quella vibrazione di fondo, la cerco sempre. Se per esempio in “Cuckoo Boohoo” era il trascorrere del tempo, l’ansia legata al tempo, per cui ci sono delle canzoni che sono delle chiare cartelle cliniche, come Peter Pan Syndrome, 3 Minutes Older, Panic Attack e così via, in quest’ultimo disco il “butterfly effect”, e quindi la teoria del caos, dell’incontrollabilità, dell’essere vulnerabili alle condizioni del mondo che ci sta intorno è qualcosa che mi ha ispirato. Poi è ovvio che non ho mai analizzato soltanto quell'aspetto facendone un saggio, ma cercando soltanto di lasciarmi ispirare, e poi posso andare a parare a tutt’altro argomento.

Per concludere questo lungo discorso sui testi e ricollegarci alla musica, vi pongo una domanda quasi personale su Celentano, una vostra bellissima canzone che per me è stata un po’ la “freccia di Cupido” nei vostri confronti. Oltre all’intensità del brano, mi colpirono i numerosi richiami al nostro Adriano nazionale, a parte il titolo esplicito: le iniziali citazioni (tra le autocitazioni) testuali e musicali, le sonorità da Yuppi Du alla “fase Toto Cutugno”, proseguendo poi in un crescendo strumentale drammatico che sfocia nel vostro personalissimo pianeta musicale, in un “mood” perfettamente coerente con il resto del disco (“Midnight Talks”). Come avete costruito una canzone tanto complessa?
Enzo: Beh, ora che me lo fai notare è davvero una canzone complessa, ma paradossalmente è nata semplicissima. Tutto gira intorno a tre accordi basilari... esisteranno altre migliaia di canzoni basate su quel giro armonico, tant’è vero che quando l’ho abbozzata subito mi ha riportato alla mente due canzoni: Girl dei Beatles e Yuppi Du di Adriano Celentano. A quel punto, come è mio solito, diedi a quella bozza il titolo provvisorio di “Celentano”. Ho trovato poi divertente fare dei richiami sia testuali che di arrangiamento all’originale “Yuppi Du”. Nel testo ci sono dei giochi di parole presi dalle liriche originali, delle sorte di anagrammi che hanno contribuito a rendere tutto molto visionario e folle. Ad esempio nel testo di “Yuppi Du” c’è una frase che recita “and in the heaven descends a grand feast” che io ho ritrasformato in “and at the grand feast of the heaven we will come together singing yuppi du”. Insomma ho giocato con le parole senza che esse trasformassero la canzone in un tributo in senso stretto. Gli arrangiamenti dei fiati hanno poi una marcata cadenza “italica” e anche in questi ci sono dei richiami più o meno espliciti, con dei fraseggi di rimando. Questo approccio divertito fece sì che il nome “Celentano” da provvisorio diventasse effettivo, ma a parte questo non esiste nessun nesso logico tra il titolo e la canzone. Quel che mi fa sorridere è che al tempo pensavo fosse una canzone “minore”, una sorta di stranezza folle... oggi invece è uno dei brani più amati di tutto il nostro repertorio. La leggenda narra che anche Claudia Mori (moglie di Adriano) incuriosita abbia voluto ascoltare la canzone...

Che ruolo hanno la musica e la cultura italiana nelle vostre canzoni?
Enzo: Sono radicate nella nostra scrittura, nella nostra musica, anche se non si vede così, “a occhio nudo”. Una certa drammaticità noi l’abbiamo presa dal fatto di essere italiani, e addirittura campani... Ci sono delle cose che hanno influenzato assolutamente la mia scrittura.

C’è nello specifico qualcosa che ti viene in mente?
Enzo: Sì: c’è un’opera teatrale che si chiama “La gatta cenerentola” di Roberto De Simone, tutta in napoletano, che è stata la prima opera che io ho imparato praticamente tutta a memoria. Quella drammaticità di cui ti parlavo prima probabilmente è presa proprio da questo tipo di opera napoletana, che riesce a mettere grande trasporto, grande pathos... Quella forse è l’opera che più mi ha influenzato. Ancora oggi ricordo tutti i testi a memoria imparati da ragazzino... Ed è qualcosa che è finita inevitabilmente nella scrittura. Poi abbiamo ascoltato tanto anche grandi autori, dico i nomi più scontati, da De André, a Battisti, a Battiato... questi, però, non credo che poi abbiano dato qualcosa al suono. È un semplice piacere dell’ascolto.

Hai accennato prima alle collaborazioni con il cinema. Rispetto a un’arte visiva come quella cinematografica vi siete relazionati generando voi qualcosa di nuovo o sono state acquisite musiche che avevate già scritto?
Enzo: Sono state sempre acquisite delle cose già scritte, almeno fino ad ora. Mi piacerebbe molto dover scrivere una colonna sonora originale, anche perché sarebbe un esperimento, un approccio del tutto nuovo, e quello che è nuovo a me, a noi, piace sempre. Probabilmente il motivo per cui sono stati utilizzati molti brani degli ...A Toys Orchestra per il cinema, e anche per la televisione (citiamo ancora il cortometraggio “Minute Stanze” di Graziano Staino, la fiction televisiva “I liceali”, il film d’esordio di Edoardo Leo “18 anni dopo”, n.d.r.), è che nella musica degli A Toys è insito l’immaginario. Noi ogni volta cerchiamo di disegnare una sorta di paesaggio, di mettere quasi un’immagine dell’umore attraverso la musica: questo tipo di feeling si presta all’immaginifico.

A proposito di televisione, avete fatto anche un’esperienza di “resident band” nella trasmissione di Fabio Volo “Volo in diretta”, che è stata sì una parentesi molto breve, ma immagino anche importante come esperienza...
Enzo: Esperienza importante perché ci ha concesso di mettere il piede in un luogo “off limits” per una band della tipologia degli ...A Toys Orchestra, che canta in un’altra lingua e che fa una musica che oggi si definisce “alternativa”. E noi siamo amanti della novità, della “conquista”, tra virgolette. Nel momento in cui questa opportunità si è concretizzata, però, noi siamo stati molto chiari prima di accettare: non avremmo adottato nessun tipo di compromesso che ci plasmasse alla tipologia di band da tv, ma una volta in tv dovevamo essere gli ...A toys Orchestra. Ottenuta la massima libertà di espressione, solo un atteggiamento radical chic avrebbe potuto farci dire di no. Poi è ovvio che non volevamo diventare una band da tv, per cui quella parentesi è stata importante, interessante, felice per certi versi, però doveva finire. E infatti siamo tornati “on the road”.

Parliamo dei vostri dischi e della vostra carriera discografica, a partire da Job del 2001. Come sono stati gli esordi?
Enzo: Guarda, gli esordi sono stati semplici, per certi versi. Forse perché come ti dicevo prima ci rapportavamo con un’epoca che era più semplice. Noi stavamo facendo solo degli esperimenti sonori, stavamo creando gli ...A Toys Orchestra da zero, facevamo le nostre registrazioni senza nessuna nozione in merito, proprio da autodidatti assoluti, perché appunto senza l’ausilio di un mezzo come internet, che può istruirti su come si fanno determinate cose, noi eravamo lì a inventarci anche discografici. Per cui nel modo più romantico e classico abbiamo consegnato dei “demo”, cassettine alla mano, porta a porta alle etichette che trovavamo interessanti. Senonché il fato ha voluto che nel modo più fiabesco accadesse così. Anzi, l’aneddoto sarebbe molto più divertente, perché il motivo per cui noi siamo stati notati è probabilmente per il nostro essere dei rincoglioniti...

Ilaria: Un po’ sbadati, diciamo... (risate generali)

Enzo: … perché quando abbiamo realizzato il primo demo su cassetta io l’ho consegnato alla Fridge Record di Milano, e ho dimenticato di lasciare un recapito telefonico, un indirizzo... qualunque cosa! C’era soltanto la musica! Senonché dopo qualche tempo io ho fatto la classica telefonata e ho chiesto: «Avete ascoltato il demo?», e loro: «Sì, l’abbiamo ascoltato proprio perché siamo stati incuriositi da qualcuno che ci lascia un demo senza alcun recapito!». Per cui questo è un po’ il “butterfly effect”, cioè passiamo dallo zero ad oggi: il caso ha voluto che tutto questo poi facesse nascere la storia degli ...A Toys Orchestra!

Ed è così, dunque, che nasce il primo disco...
Enzo: Sì, e quello che era un esperimento sonoro finito sul disco, oggi, per l’epoca che viviamo, è assurdo: sia per il suo contenuto, sia perché ci sono canzoni lunghe dieci minuti, il disco stesso dura 73 minuti, che oggi sono tre dischi... Poi da lì ci siamo affinati, abbiamo capito di voler costruire una musica che fosse proprio nostra e non solo un esperimento.

Passando da fare musica per conto vostro a doverla fare per un’etichetta, avete dovuto cambiare qualcosa?
Enzo: Assolutamente mai cambiato nulla. È il pregio di far parte di un mondo indipendente. Non c’è bisogno di doversi adeguare a logiche di mercato, perché quello indipendente non è un vero e proprio mercato, ma qualcosa che mette in vetrina delle forme di espressione libere. Questo è il pregio di far parte di un mercato indipendente. Che poi soffre sotto altri aspetti, però non abbiamo mai avuto pressioni, o bisogno di doverci plasmare a qualche fine.

Nessuna pressione, mai?
Enzo: Guarda, l’unica volta che è successo qualcosa di simile è stato proprio agli esordi, quando abbiamo fatto il primo disco e avevamo avuto dei contatti con la Sony che era molto interessata a questa nostra nuova formula, a questo disco. E ci ha proposto fin da subito indovina cosa? Di cantare in italiano! E la nostra storia poi parla chiaro su quale è stata la decisione in merito.

Negli ultimi anni siete in forza ad Ala Bianca, un’etichetta che ha dato e sta dando tanto alla musica italiana vecchia e nuova. Come vi siete trovati?
Enzo: Ala Bianca è una parentesi felice del prosieguo della nostra storia: nel momento in cui facevamo parte di un mercato indipendente molto libero ci siamo potuti affiancare a un’etichetta importante come Ala Bianca che ha voluto soltanto semplificarci la vita, ma lasciando integro il nostro aspetto.

Ho notato che i vostri album, seppure riconducibili al vostro specifico background musicale, comunque vastissimo, sono tutti tra loro molto diversi. Mi interesserebbe capire se questo risponde a modalità di nascita diverse, o al periodo in cui vengono scritti, o al vostro modo di lavorarci sopra...
Enzo: Io credo che l’unica cosa che abbiamo cercato di affinare nel tempo è una scrittura di fondo che fosse nostra, dopo di che cercare di vestirla sempre in maniera differente per non chiuderci in un unico schema, per non finire la storia lì. Noi non ci sentiamo dei maestri, ma degli alunni, quindi abbiamo bisogno di vedere davanti a noi una strada lunga, ancora aperta. Questo fa sì che per certi versi ancora siamo congelati in un limbo da giovani apprendisti che hanno bisogno di modificare sempre, di crescere sempre. Io sono assolutamente allergico alla frase “disco della maturità”, perché significherebbe essere arrivati, accontentarsi e poi fare un mestiere. C’è chi lo sa fare con grande qualità e grande nobiltà d’animo. Noi non siamo quel tipo di band, abbiamo bisogno di muoverci. Oggi la nostra scrittura è riconoscibile, però la veste è sempre diversa.

Ilaria: È anche interessante quando affronti un disco nuovo pensare di rimetterti in gioco ogni volta: se riesci a fare qualcosa che è interessante per te, magari anche chi lo sentirà lo troverà interessante. Rifare sempre la stessa formula in ogni disco potrebbe risultare noioso, per noi ma anche per chi ascolta. Credo sia interessante per me sentire il disco di una band che mi piace, e pensare, quando esce un disco nuovo: «Chissà che cosa si sono inventati questa volta!».

Enzo: C’era Beck che ogni disco che faceva era differente dal precedente, e ognuno era magistrale; cambiava totalmente genere ogni volta: ha fatto dal country, all’hip hop, al funk, sempre facendo dei dischi clamorosi. Quel tipo di approccio ci ha affascinato di più.

Lavorate molto sugli arrangiamenti, ho notato, scegliete sonorità diverse per ciascun disco: Midnight Talks, ad esempio, è molto acustico, a tratti quasi sinfonico, altri sono più elettronici... Ecco, sulle sonorità mi pare che ci siano le maggiori differenze...
Enzo: Beh, certo, quella è un po’ la conseguenza nel momento in cui adotti come tema la scelta, il cambiamento; come dicevo, se c’è una scrittura di fondo che è quella, il modo per diversificarla è attraverso l’arrangiamento. Anche in quest’ultimo disco, per esempio, abbiamo pensato ok, perché non utilizziamo quello che prima era in background come fronte, come dire, come focus iniziale? Quindi, quelli che prima erano i sintetizzatori con cui tessevamo i nostri arrangiamenti in passato li abbiamo messi avanti al posto delle chitarre... Insomma, spostando dei piani sonori gli effetti cambiano. Però siamo la stessa band, sono le stesse mani a suonare.

Cosa lega i dischi “Midnight Talks” e “Midnight (R)evolution”, oltre al titolo?
Enzo: Perché sono due dischi che sono nati attaccati, nonostante gli argomenti differiscano tra loro...

Ilaria: Sono poi attaccati come tempo, proprio, sono molto vicini tra loro...

Enzo: Sono stati scritti insieme. Molte delle canzoni di “Midnight (R)evolution” erano già nella sessione di “Midnight Talks”, ma ci rendevamo conto che avevano una vita differente; erano dei gemelli, eterozigoti, però, motivo per cui abbiamo deciso di farli nascere in due momenti. Due album fratelli gemelli, con personalità e tratti somatici differenti, ma figli della stessa gestazione.

Arrivate quindi a quest'ultimo disco, in cui peraltro oltre ai "soliti" quattro - voi due, Raffaele Benevento e Andrea Perillo - è con voi Julian Barrett, polistrumentista anche lui. Tanti anni, tanto lavoro, tanti live, tanti dischi, nessun compromesso, eppure il tam tam arriva sempre e sempre meglio: la vostra crescita in popolarità è attestata dal fatto che c’è sempre più attesa per le vostre uscite discografiche... È una percezione che avete anche voi?
Enzo: Sì, percepiamo anche noi quell’attesa. Però noi siamo lì a cercare prima di tutto di sorprendere noi stessi, di cercare di fare le cose al meglio. Poi è ovvio che senza un pubblico che apprezzi questo sarebbe tutto vano, inutile, e sarebbe anche molto narcisista. Dobbiamo trovare la via di mezzo: la fase iniziale è molto asservita a quelle che sono le nostre esigenze, e poi si cerca di bilanciare tutto attraverso qualcosa che sia fruibile anche per chi ci ha apprezzato fino a questo momento. Però la verità è che questo succede in maniera molto meno sovrastrutturata di quanto si immagini, è tutto un processo molto naturale.

Avete registrato “Butterfly Effect” a Berlino: sembra essere nato con uno spirito nuovo, quest’ultimo lavoro. È davvero così?
Enzo: Sì, riguardo all’ultimo disco è andata più o meno così, ma guarda, non molto diverso dagli altri dischi. Una volta finito il ciclo di un disco precedente siamo lì a ritrovarci in sala prove e a cercare di inventare un nuovo percorso, ed è andata così anche questa volta. Poi ci sono state delle esigenze che sono frutto anche del fatto che sono tanti anni che facciamo dischi, e che siamo sulla scena, diciamo. Per cui una volta che i provini erano pronti e che il suono del nuovo disco sembrava voler nascere, abbiamo deciso di farlo nascere in maniera differente dalle altre. Andarcene fuori dall’Italia era anche perdere una certa sicurezza che è quella del nostro stagno protetto dell’Italia, mentre noi volevamo conservare un filo di tensione di fondo che ci facesse mantenere alta la concentrazione. E poi poter mettere piede anche fuori dall’Italia quando siamo chiaramente una band volta anche all’internazionale ha fatto sì che fosse tutto più credibile.

Come è nata la scelta del luogo specifico?
Enzo: È nata soprattutto dal fatto che volevamo lavorare con un produttore straniero per vedere cosa venisse fuori mettendo questo nostro suono nelle mani di chi si rapporta con musica internazionale. Così ci siamo messi in contatto con Jeremy Glover, che aveva fatto dei lavori che noi adoravamo, e che è diventato poi il produttore di “Butterfly Effect”. Essendo lui di stanza a Berlino, abbiamo trovato uno studio lì. E poi così siamo andati in una città che è fantastica e che ci ha in qualche modo influenzato attraverso le sue stesse vibrazioni.

Ci avete passato parecchio tempo, dunque?
Ilaria: Due mesi. Una gestazione lunga! Ci siamo proprio immersi...

Adesso state promuovendo il disco, avete una serie di appuntamenti in radio e poi un tour...
Enzo: Ora sta succedendo quello che è naturale dopo la realizzazione di un disco, cioè la promozione, e portarlo in giro in tutte le sue forme. In questi due giorni romani, per esempio, siamo lì a reinterpretare il disco al suo inverso, al suo opposto, perché è un disco come dicevamo molto più elettronico, molto più basato sui sintetizzatori, e invece siamo qui con la chitarra acustica e una tastierina; questo è il bello di poter dare forma alle canzoni in mille modi. Poi è ovvio che le interviste sono utili per cercare di spiegare, anche se io trovo sempre molto difficile dover spiegare un disco: come diceva Frank Zappa, «spiegare la musica è come ballare architettura»... Ecco, citando Fank Zappa tutto torna!

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