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“Io, noi e Gaber” – documentario di Riccardo Milani

di Rosario Pantaleo

Non si può che plaudire alla RAI per averci mostrato, la sera del primo dell’anno 2024, il documentario, ‘Io, noi e Gaber’, di Riccardo Milani, uscito nelle sale per tre giorni a novembre. Un regalo importante per varie ragioni e che, ci auguriamo, apra le porte ad un altro documentario: quello di Giorgio Verdelli, ‘Vengo anch’io’ sulla figura del suo “gemello”, Enzo Jannacci.

Al netto del fatto che ciascuno potrebbe segnalare mille altri modi per presentare un artista geniale come Giorgio Gaber, quello che è bene sottolineare è che questa è un’operazione di doveroso omaggio ad un grande artista che ha vissuto l’humus dell’Italia del dopoguerra da una posizione (come altri artisti) privilegiata grazie alla quale ha potuto osservare, con sfaccettature differenti, la crescita ed il cambiamento dell’Italia. Nelle immagini, centratissime, di Gaber, Mina e Celentano che sbucano in video da un Juke Box appare, netta, la cesura tra un prima e un dopo non solo della canzone ma, soprattutto, di una società desiderosa di cambiamento. Di una società proveniente dal ventennio fascista, dagli anni della guerra, da quelli del dopoguerra e della ricostruzione.

Nel documentario le immagini di Gaber, prima in bianco e nero, sono accompagnate da interventi non monologanti ma incisivi, di suoi collaboratori, amici, estimatori tutti alla ricerca del ‘loro’ Gaber preferito. Questa ricerca è importante perché manifesta la consapevolezza di essere di fronte ad un personaggio poliedrico, ad un artista a 360 gradi, ad un sociologo o filosofo, ad un “teppista” della parola che - insieme al fondamentale apporto di Sandro Luporini, non dimentichiamolo mai - ha realmente rivoluzionato il medium canzone, trascinandolo in teatro affinché la forza della parola (e della musica) degenerasse nella costruzione di un pensiero sociale, etico, politico fortemente sovversivo. Nelle testimonianze raccolte dal regista (tante e di personaggi molto diversi tra loro) traspare un’ammirazione sincera per la genialità ed il coraggio messo in campo dall’uomo Giorgio, prima e dall’artista Gaber, dopo. Un coraggio per nulla scontato in un’Italia bigotta e molto conformista che viveva la sua crescita, il suo sviluppo, la sua ricerca di ricchezza, in maniera apparentemente disordinata ma con alle spalle l’obbiettivo di mantenere le classi subalterne in una condizione di necessità per potere, come ben ci racconta ‘Il Gattopardo’ di Tomasi di Lampedusa, con quel concetto che più esplicito di così non può essere: cambiare tutto per non cambiare niente. Ma siccome il cambiamento è figlio di un atto di ponderata volontà, la scelta, radicale, di abbandonare i trionfi televisivi, i festival di Sanremo o di Napoli e manifestazioni assortite, fu un gesto rivoluzionario perché dal punto di vista pratico ed oggettivo metteva un artista “arrivato” a mettersi in gioco agli albori degli anni ’70. Questo credo sia il focus del documentario di Milani, che attraverso testimonianze e la visione di immagini d’epoca di Gaber in teatro ha cercato di trovare il punto di equilibrio di un artista inquieto e geniale che, con la sponda lirica ed intellettuale di Luporini (nella foto), ha saputo scardinare il mondo della canzone, accettando, senza compromessi, di intraprendere un viaggio rischioso, problematico, conflittuale, visto che nei suoi spettacoli ce n’era per tutti, come ad esempio in ‘Polli di allevamento’ del 1978. Un viaggio rischioso anche da un punto di vista economico, commerciale, se consideriamo che gli album (doppi) dei suoi spettacoli si vendevano solo nei teatri in cui si esibiva. Un viaggio verso il quale Milani ci indirizza attraverso un “noi” che, probabilmente, rappresenta l’esperienza profonda dell’artista milanese: quella della condivisione del pensiero che, attraverso la parola, la musica, il linguaggio del corpo, si fa concretezza, si trasforma in macchina culturale, si sviluppa nell’essere parte attiva di una consapevolezza che si fa realtà. È in quel “noi” che si racchiude l’eredità di Giorgio Gaber e tutti coloro chiamati ad esprimere un ricordo, un pensiero, un aneddoto, manifestano un estremo rispetto nei confronti di un personaggio davvero particolare nel panorama artistico e culturale del nostro Paese.

Un bel documentario, con un finale da brivido, privo di enfasi da parte di tutti coloro che sono stati invitati a parlare del protagonista, con la profondità dell’affetto di sua figlia Dalia e della presenza silenziosa ma evocativa della moglie Ombretta Colli che, pur senza proferire parola, ha fatto percepire l’amore profondo per suo marito.

Lavori come questo fanno riflettere perché fanno scorrere il passato davanti agli occhi di chi c’era (che si accorge di quanta bellezza e ricchezza è stato testimone…) ma, soprattutto, di chi non c’era che entra nella consapevolezza del comprendere di quanto presente è concentrato in quel passato e, grazie a ciò, sentirsi chiamato in causa per “recuperato” quella ricchezza intellettuale ed artistica non vissuta al tempo “giusto”. Una ricchezza che è tutta presente in ciascuno dei lavori discografici di Gaber e che, a ben ascoltare, e vedere, non ha perso un grammo della sua potenza dirompente, iconoclasta, eversiva, civica, sociale, musicale e lirica concessa ad un “noi” alla ricerca del senso della vita. 

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