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Questione di manico

Attorno al pianeta-chitarra nelle sue diverse accezioni si sviluppa la nostra odierna puntata, costellata da una generosa presenza di corde in senso lato, lungo traiettorie anche molto lontane fra loro

Oggi parliamo di chitarre. Al plurale, sì: acustica ed elettrica, ovviamente, ma anche baritona, bassa, ecc. Partiamo da quella che è un po’ la formazione-tipo del pianeta a sei corde (di pianeta in effetti si tratta): il trio con basso e batteria. Lo facciamo attraverso un prodotto piuttosto tipico del filone: Live at Cape Town (NAU Records) del Roberto Cecchetto Core Trio. Le geometrie appaiono da subito lineari, familiari, con equilibri interni ottimamente oleati. Manca magari un po’ di originalità, ma comunque brani come That Evening, aperto dal solo Cecchetto e poi avviato lungo sentieri vagamente friselliani, e Gift, di struttura (ed eleganza) analoga, si fanno ascoltare con piacere.

Per dire come le cose possano variare pur restando sempre in ambito-trio, prendiamo ora in considerazione due lavori assolutamente distanti, dal precedente ma anche fra loro. Il primo è Cups Glasses and Tanks (AUT Records) del trio Guazzaloca (Nicola, pianista) Montagne (Fabio, chitarra acustica, elettrica baritona e bassa, armonica a bocca) Mongelli (Giacomo, batteria e percussioni). Qui il terreno è molto più prossimo all’avanguardia di matrice contemporanea, con le chitarre gravi di Montagne che ricollegano spesso il dialogo a tre più a quello di un piano trio che non a qualcosa di squisitamente chitarristico. La presenza di Guazzaloca, frequentatore piuttosto assiduo di queste colonne, è garanzia di rigore e ricerca, e neppure stavolta si sgarra. Disco di sicuro spessore, mai ovvio, in cui proprio per questo i jazzofili troppo canonici potranno magari non riconoscersi granché (perdendo una buona occasione, nel caso).

C’è poi Undici cormorani (Setola di Maiale) dei Maestri Invisibili (foto in alto), alias Nicola Cattaneo e Franco Cortellessa alle chitarre acustiche (nel secondo caso di nuovo baritona e a sette corde) e il sempre ottimo Emanuele Parrini, violino. Trio strettamente cordofono, quindi, con un altro bel salto di lato rispetto al grande ceppo jazzistico. L’aria che si respira, qui, è di taglio country-ancestrale, preziosa e ben tornita, raffinata e fragrante. A voler trovare una parentela pur già di per sé perifericamente jazzistica, certi aromi, certe spezie, rimandano al glorioso String Trio of New York. Il che, detto per inciso, non è rilievo da poco.

Ancora un raddoppio delle chitarre, qui però elettriche (e quindi più in linea col trio di Cecchetto), più basso e batteria, contrassegna ZiroBop (UR Records) dell’omonimo quartetto guidato dal batterista Enzo Zirilli. Dodici i pezzi, fra originali e pagine di Monk, Jobim, Pino Daniele e altri. L’eterogeneità del materiale affrontato garantisce una felice articolazione complessiva, non senza qualche bizzarra trovata (tipo i due fulminanti divertissement iniziali). Disco che, a dispetto di qualche episodio un po’ più canonico, si fa ascoltare con gusto.

Con una delle due chitarre sostituita dal robusto sax tenore e baritono di Yuri Argentina (e ospiti sparsi qua e là lungo gli otto brani), eccoci a un altro quartetto, Urban Killas, protagonista di Down on Earth (AUT), album solcato da palpabili venature rock (alla chitarra è Andrea Vedovato), ma anche etniche e sperimentali, talora materico, nervoso, persino lancinante (per esempio nell’ottimo Circus, uno dei due brani in cui si unisce il rotondo trombone di Tony Cattano). Eterogeneo a volte, intenso sempre.

 

Più calibrato e concettuale, ma su temperature a loro volta vitali, si sviluppa The Roots of Unity (Dodicilune), opera di un terzo quartetto (vedi foto sopra), però dalle geometrie assolutamente dissimili. Lo guida il chitarrista barese Rino Arbore (suoi tutti i brani, in un lavoro in cui la componente compositiva è quanto mai centrale), con la tuba (o il serpentone) di Michel Gadard in luogo del basso canonico, più sax alto (il tagliente Mike Rubini, qua e là anche al flauto) e batteria. Un’estetica che non disdegna terreni già battuti da un Threadgill o un Berne (cosa c’è di più alto, del resto, nel jazz di oggi?), però con chiari tratti originali, contrassegna uno dei lavori più stimolanti usciti in Italia negli ultimi mesi, per quanto non esente da episodiche cadute di tensione. Ne attendiamo curiosi il seguito. 

E chiudiamo con un album in sestetto, Zero Brane (AUT) del debuttante chitarrista potentino (ma fiorentino d’adozione) Matteo Tundo, capace di coinvolgervi musicisti veramente notevoli quali il già incontrato Parrini, Piero Bittolo Bon, sax alto e clarinetto, e il tastierista Simone Graziano. Il risultato è un lavoro di tono neanche troppo dissimile dal precedente, forse solo lievemente meno definito circa la linea da seguire. Tundo ha del resto appena ventitre anni, e di certo tutta la stoffa per dire una sua parola nel panorama jazzistico nazionale. Non gli mancano originalità e idee, il che significa essere già a metà del guado. 

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