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L'estirpazione - Litfiba: Spirito


Il disco della disfatta, della defintiva dissoluzione artistica prima dello scioglimento ufficiale, dell’intorpidimento di una delle realtà rock più interessanti degli ultimi venticinque anni. Ma anche il sintomo – uno dei tanti, ma lacerante come pochi per una generazione che li seguì – della decomposizione morale che l’Italia stava già subendo e avrebbe ancor più subito poi negli anni successivi a quel 1994. E’ Spirito dei Litfiba: disco brutto e anche involontario zeitgeist dei mala tempora. Album doppiamente perdente nell’ottava puntata della rubrica curata da Marco Boscolo.

C'è stata una stagione durante la quale le band italiane si confrontavano con il mondo intero. E non ne uscivano necessariamente sconfitte. Erano gli anni ottanta nella Bologna dei Gaznevada e degli Skiantos, nella Firenze dei Neon e dei primi vagiti di Federico Fiumani e dei suoi Diaframma, solo per citare quegli esempi che oggi si trovano dentro i libri di Storia. Questa, però, è solo una faccia della medaglia, perché da come lo raccontano le cronache, quel mondo sembra fosse fatto di polarizzazione tra centri sociali e paninari, di edonismo sfrenato, di trionfo del consumismo, di codici a barre tatuati sulla pelle. Ma a guardarlo attraverso l'arte e la cultura, quel decennio sembra molto più vivo e vitale, essenziale per la cultura italiana di tutto quello che sarebbe successo nel decennio successivo, quegli anni Novanta che dovevano rappresentare la riscoperta della spiritualità, dell'anima dopo la superficialità del decennio precedente. Quando si diceva che «lo spettacolo deve ancora cominciare», come recita Piero Pelù nella prima traccia di Spirito dei Litfiba, tutti pensavamo che si stesse riferendo alla rinascita dell'arte e della cultura, della società tutta: ci aspettavamo un nuovo Rinascimento. Quanto ci stavamo sbagliando. Il Terremoto che c'era appena stato, che pareva avere scosso qualcuno tra i più giovani – non lo sapevamo ancora – ma era confinato al nostro ombelico. Nessuno guardava al di là del proprio giardino e solo qualcuno osava aprirsi al dialogo. L'Italia usciva dall'esperienza del primo governo Berlusconi, primo tassello di una chirurgica estirpazione dell'altro, del fuori, del mondo dal discorso pubblico. Dopo il decennio del vuoto culturale, finalmente l'Italia mostrava il suo volto più autentico: l'autocelebrazione a ogni costo, la costruzione del falso mito, la decostruzione dei valori collettivi.

Il vero cambiamento di cui Piero e Ghigo si fanno inconsapevoli profeti è quello della politica-spettacolo, dei provvedimenti-farsa, della sconfitta definitiva delle sinistre, della scomparsa dei valori della politica. L'Italia guarda poco oltre il proprio naso e la musica non fa che riflettere questi umori bassi, ventrali. Così No frontiere più che un inno transnazionalista sembra un pugno assestato malamente: voleva colpire lo stomaco, colpisce una spalla. Più che procurare shock e dolore a chi lo assesta, sembra già assumere una dimensione altra: il vorrei-ma-non-posso. La tetralogia degli elementi inaugurata dai Litfiba con il rutto epocale di “El Diablo” sembra sempre più assumere toni new age: dopo la virata hard rock diTerremoto”, anche la rabbia scompare in favore di un volemose bbene musicale che tradotto in politica, un quindicennio dopo, produrrà una delle sconfitte più mutilanti dei riformatori italiani. Un'idea seminale, ripresa più tardi anche negli episodi più “impegnati” di Pelù in solitaria (“UDS. L'Uomo Della Strada”), o accompagnato da Lorenzo Cherubini e Luciano Ligabue. Ne è esempio premonitore la superficialità di Lacio drom, dedicata agli zingari: «Ti porterò nei posti dove c'è del buon vino / E festa festa fino a mattina». In fin dei conti basta stare insieme, stare uniti per risolvere gli attriti. Insomma: volemose bbene. E infatti gli zingari in Italia rimarranno sempre uniti, ma tra di loro, senza che mai una volta il nostro Paese (di destra o sinistra che fosse il governo) abbia offerto loro davvero di partecipare al discorso pubblico o, almeno, a una parvenza di dialogo. La profezia è ancora più agghiacciante e parodistica in Tammùria: «Se un dittatore dal nuovo balcone / Spaccia in TV la gioia / Tu scuoti la noia e gli sguardi / Di chi non lo capisce / Se oggi e come ieri ammazzi ogni futuro».

Quello di “Spirito” è un meltin' pot musicale che pesca tanto dalla world music, quanto dal latin pop, senza trovare mai una direzione definitiva. È la cifra dei Litfiba dopo quello che per molti fan è stato il grande tradimento. Dopo quasi un decennio con lo sguardo rivolto ovunque, musicalmente e poeticamente (la new wave, il rock internazionale, ma anche il Sud del mondo, e le miserie dell'assenza del dialogo), con “Spirito” i Litifiba riescono a chiudersi definitivamente a riccio, restituendoci così una delle immagini più efficaci per raccontare l'Italia che stava nascendo allora: un Italia senza slanci, senza passioni, se non basse, meschine. Un'Italia che è il trionfo della medietà che non vorrebbe essere tale, perché tutti, guardandoci l'ombelico, ci sentiamo Napoleoni. Un'Italia alla quale nessuno ha saputo ribellarsi, com'è successo negli anni Sessanta e Settanta, o dalla quale non è stato possibile nascondersi, magari nell'eroina, com'è successo negli anni Ottanta. Un'Italia vista dal buco della serratura della tequila e dello spinello ecumenici di Suona fratello, un'Italia della quale non riusciamo nemmeno a vergognarci, ma alla quale abbiamo deciso che, come chi ha amato “Desaparecido” e “17 Re” si trova di fronte a “Spirito”, possiamo soltanto arrenderci.




Litfiba
Spirito
EMI
1994


01. Lo spettacolo
02. Animale di zona
03. Spirito
04. La musica fa
05. Tammùria
06. Lacio drom (Buon viaggio)
07. No frontiere
08. Diavolo illuso
09. Telephone blues
10. Ora d'aria
11. Suona fratello

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