Dopo un breve periodo di pausa dovuto alla trasferza
della redazione de L’Isola che non c’era in quel di Sanremo per il Premio Tenco
2008, ecco la terza puntata della nostra esplorazione dell’Arcipelago Jazz. Alberto Bazzurro ci guida alla scoperta di una
serie di progetti usciti negli ultimi tempi che hanno come protagoniste formazioni in quartetto.
Uno
degli episodi più gustosi – e insieme paradossali – dell’aneddotica jazzistica
riguarda il sassofonista Paul Desmond,
membro storico del quartetto di Dave Brubeck, il quale una volta si sentì
chiedere da un organizzatore: “in quanti siete nel quartetto?”. Desmond, che
era uomo ricco di humour, tenne a mente questa quanto mai bizzarra domanda (How
Many of You Are There in the Quartet?),
riproponendosi di intitolarci quell'autobiografia che di fatto, complice una
morte prematura (a cinquantatre anni, nel 1977), non avrebbe mai dato alle
stampe.
La
stramba circostanza ci serve a introdurre il nostro discorso di oggi, che ruota
proprio attorno a quella che è una delle formazioni classiche del jazz, appunto
il quartetto; classico fra i classici, il quartetto con un fiato (più spesso
proprio un sassofono, prototipo massimo il quartetto di Coltrane) più trio
ritmico (piano, contrabbasso e batteria). Ma già dai tempi del celebre pianoless quartet di Gerry Mulligan (dal
1952 in poi),
attraverso l’altrettanto pianoless (letteralmente
“senza piano”) di Ornette Coleman,
principe del free jazz (già nel ‘58), giù giù negli anni successivi (e magari
anche precedenti), il quartetto ha spesso sovvertito questi canoni, approdando massicciamente
fin dagli anni Settanta a organici che oltre al piano bandivano anche basso e
batteria (pensiamo a certe formazioni di Anthony Braxton, o ai quartetti di
sole ance).
E’
appunto quanto vedremo oggi, come di consueto mediante un rapido excursus
attraverso una serie di recenti uscite discografiche nostrane. Se i quartetti
di Mulligan e Coleman rimpiazzavano il piano con un tromba, lo stesso accade ad
esempio in Stylus Q (Abeat), firmato
congiuntamente dal trombettista Giovanni
Falzone (foto sopra), dal sassofonista (tenore e soprano) Tino Tracanna, dal bassista Paolino Dalla Porta e dal batterista Vittorio Marinoni. Il disco,
singolarmente, prevede due cinquine di brani (Suite A e Suite B) composti
rispettivamente da Falzone e da Tracanna. Data la grande considerazione che
spetta in particolare a Falzone, non si può nascondere che il lavoro, pur
pregevolissimo, appaia come un po’ ingessato, poco espanso creativamente, avaro
di vere sorprese. Vi aleggia un ricorrente respiro contrappuntistico, senza
soverchie divergenze fra le due suite, come imbavagliate da griglie strutturali
un po’ troppo rigide.
Come
già fece lo stesso Mulligan sostituendo Chet Baker con Bob Brookmeyer, la
tromba cede il posto a un trombone (Lauro Rossi) in Boastful Speeches (Jèi) del batterista e percussionista pugliese Enzo Lanzo, con Roberto Ottaviano ai
sassofoni e Giovanni Maier al contrabbasso. Lanzo, che già in passato si era
rivelato musicista di talento riproponendosi poi fin troppo di rado, vi
inserisce otto sue composizioni, mentre la nona (in realtà la quinta), The Shaman, è un’improvvisazione a tre
con Ottaviano e Giorgio Vendola che rileva Maier. Globalmente, ne vien fuori un
album di sicuro spessore, aperto e comunicativo per quanto mai pedissequo. Lo
illumina, in primis, il limpido sopranismo di Ottaviano (ma ognuno fa in pieno
la sua parte, anche se il contrabbasso di Maier ha qua e là un timbro un po’
troppo metallico, come sotto vuoto), specie in Without Iog, vagamente à la Lacy, e in Moonlight, solenne, concentrato, quasi liturgico. Ciò detto, non
può non sorprendere che l’incisione risalga niente meno che al 2003, e sia
quindi rimasta in un cassetto per ben cinque anni!
Ancora
di più sorprende, provenendo da un nome nuovo, il terzo cd di cui ci occupiamo,
cioè Passing Notes (Improvvisatore
Involontario) del trentenne sassofonista e flautista napoletano Gaspare De Vito, il cui quartetto rispecchia
il precedente, però con la batteria rimpiazzata da congas e marimba, a turno. Pieno
e rigoglioso il sound d’insieme, al servizio di composizioni (nove, tutte di De
Vito) tutt’altro che banali entro cui l’elemento solistico gioca un
ruolo-cardine. Come si dice in questi casi, ne risentiremo parlare.Col
trombone sostituito dalle “corde” del leader, Paolo Botti (nella foto qui sopra), passiamo a un altro lavoro di
ragguardevole fattura, Looking Back (Caligola),
più spinto sul terreno dell’avanguardia grazie al suono arcigno del sax alto di
Dimitri Grechi Espinoza, al mobile contrabbasso di Tito Mangialajo e alla
batteria di Filippo Monico, nome storico del free nostrano. Botti, peraltro, ha
la grande dote di sublimare in una concettualità a tratti stralunata ciò che
altri vorrebbero aspro e grumoso. E’ questo un tratto originale che da sempre lo
contraddistingue. In questo nuovo lavoro, si accentua semmai, in un uso più
insistito di banjo e dobro accanto all’abituale viola, la componente country
(Frisell, Chadbourne) della sua musica.
E
chiudiamo col quartetto più fuori dagli schemi, “a responsabilità collettiva”
come già quello di Falzone & Co. Trattasi di Enzo Favata, ance, Daniele
Di Bonaventura, bandoneon e piano, Maurizio
Brunod, chitarre, e Massimo Barbiero,
percussioni, gli ultimi due in particolare, da sempre coéquipiers in innumerevoli avventure musicali, responsabili primi del
lavoro, Jeux d’enfant (Comar), di
cui firmano la maggior parte dei dieci temi. Una cantabilità docile ed
evocativa apparenta del resto le poetiche dei due, qui degnamente sostenuti in
particolare da uno strumento seduttivo come il bandoneon. L’unico neo, in un
album senz’altro elegante e prezioso, può risiedere magari in un minimo di
calligrafismo, in una certa impalpabilità, limiti peraltro elusi nei brani migliori,
quali Gaucho di Brunod, Blu (per steel drum sola) e l’alternate
take di 20/01 di Barbiero, e Sajat
Nova di Favata.