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À rebours (all’indietro)

Come nel sacro testo di Huysmans, e all’opposto di quanto teorizzato dall’Art Ensemble of Chicago, una puntata stilisticamente a ritroso. Con alti e bassi.
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‘From the ancient to the future’, recitava un ormai attempato adagio dell’Art Ensemble of Chicago. Oggi noi, di fatto, compiamo il percorso inverso: dal presente al passato, stilisticamente parlando. Passeremo infatti in rassegna una serie di album (dodici) che partono da forme musicalmente più avanzate, per approdare via via (non necessariamente con continuità) a stilemi più remoti, per così dire “di scuola” se non di maniera. Una sorta di à rebours, all’indietro, a ritroso, certo, come recitava il titolo del capolavoro di Joris-Carl Huysmans, bibbia del decadentismo.

C’è scuola e maniera, del resto, anche nell’avanguardia, che del resto, per la musica nata nel ghetto e poi espansasi ovunque, affonda le sue radici oltre mezzo secolo fa, negli anni della cosiddetta new thing. È venuto poi il radicalismo europeo, e tanto altro. Di qui prende appunto le mosse la nostra odierna storia, così come il cd che la apre, Fields (Setola di Maiale) del duo formato dal chitarrista Enzo Rocco e dal batterista Ferdinando Faraò. La pratica è quella dell’improvvisazione senza rete, ora più fitta ora più minimale, con qualche buona idea iniziale e la successiva impressione che si proceda un po’ col pilota automatico.

Improvvisazione totale anche in Exuvia (FRM), dove il nostro Nicola Guazzaloca, pianoforte, dialoga col violista serbo Szilard Mezei e col polistrumentista inglese Tim Trevor-Briscoe su terreni a loro volta fitti, nervosi, pur con fisiologiche oasi defaticanti. I tre sono maestri in materia, e si sente, anche se pure qui la componente aleatoria genera un livello altalenante, pur se complessivamente più che apprezzabile, cosa che vale anche per il Norwegian Trio del pianista comasco Carlo Maria Nartoni, trio classico, con basso e batteria, che però, in Syria (Unit), rivela una capacità di uscire felicemente dalle secche in cui si trovano spesso ad agire gruppi analoghi, espressioni della formula più trafficata del jazz, praticando la succitata improvvisazione così come percorrendo composizioni originali del leader. Da tener d’occhio.

Sempre in trio ma lungo itinerari largamente predefiniti, ecco Helm (Auand), il nuovo album di Hobby Horse, non il migliore, fin troppo impastato di elettronica, con quel senso di incapsulamento emotivo che permea un po’ da sempre la musica del trio, portandosi peraltro dietro, nel contempo, l’ammirazione per il rigore, la coerenza, il profondo senso della forma complessiva che anima i tre. Anche se magari, nello specifico, quei venti minuti finali così paralizza(n)ti si sarebbero potuti evitare.

Quarto e ultimo trio, Galactus nell’album omonimo (Improvvisatore Involontario) rivela un approccio deciso, affermativo, alla materia musicale, col trombone di Simone Pederzoli costantemente al centro delle operazioni, pur in un incedere che rimane sempre felicemente corale, al crocevia – volendo semplificare – tra free e rock. Tredici i brani, tutti del chitarrista Giorgio Casadei (anche all’elettronica, ecc.), con Alessio Alberghini, sassofoni e flauto, a completare l’organico.

Ancora un trombone, quello glorioso di Giancarlo Schiaffini, gioca un ruolo tutt’altro che secondario nel doppio Fakebook (Dodicilune), che raccoglie pagine (anche qui tredici, di durate svarianti da poco più di un minuto a oltre mezz’ora) di Alvin Curran (foto in alto), musicista americano ormai prossimo agli ottanta che da oltre mezzo secolo vive a Roma, dove ha collaborato fra gli altri con Nuova Consonanza (con lo stesso Schiaffini e un certo Ennio Morricone) e svariati jazzisti d’avanguardia, fondando fin dal 1966 con Frederic Rzewski, Allan Bryant e Richard Teitelbaum MEV (Musica Elettronica Viva). Un’ora e mezza abbondante di musica copre dunque questi due cd, in quartetto con Curran, Schiaffini, ance e vibrafono, più un paio di ospiti in brani sparsi. Si fanno particolarmente apprezzare il cuore del primo cd (brani da 2 a 8) e spezzoni dell’ampio The Answer Is che copre buona parte del secondo. Avantgarde sì, ma senza eccessi. E con un finale onestamente poco comprensibile per la sua inattesa prudenza (quasi disincantata). Opera comunque rara e preziosa.

Il trombettista napoletano Mariano Di Nunzio dirige a sua volta in Day by Day (Mardin) un quartetto, peraltro dalle geometrie ben più usuali (piano, basso e batteria), ma la musica che ne vien fuori non è per questo pedissequa, rivelando una cura per la costruzione e la forma senz’altro ammirevole. Né manca neppure qui l’elettronica, così come in Elements (Leo), opera di un sestetto che pratica l’improvvisazione totale e in cui spiccano la voce di Marialuisa Capurso e le varie diavolerie (chitarra compresa) maneggiate da Adolfo La Volpe. Qui i terreni, come si sarà inteso, sono molto più informali, ma la difficoltà di far quadrare il cerchio è palese: rari i momenti degni di nota, e per il resto un prodotto che stenta a esprimere una propria linea, troppo spesso inconcludente e ripetitivo.

Sempre da casa Leo ci arriva anche Moscow Files del Luca Sisera Roofer, quintetto rinforzato per l’occasione dal sax alto del russo Alexey Kruglov. Sisera è un bassista svizzero di chiare origini italiane e il suo lavoro è caratterizzato da un jazz avanzato quanto solido, equilibrato, anche se magari non sempre memorabile, il che vale anche per Silent Water (Auand), cd d’esordio del chitarrista senese Francesco Fiorenzani, in quintetto con Achille Succi alle ance e Francesco Ponticelli al contrabbasso, fra gli altri. Qui i tracciati sono decisamente più prudenti, un post-bop rimodernato, ben costruito anche se forse un po’ scolastico, privo di autentici colpi d’ala.

Un gruppo senz’altro più collaudato è Porta Palace, sestetto che in Stone (Rudi), live torinese di fine 2016, ospita la prestigiosa cornetta di Rob Mazurek. Sarà forse per la qualità dell’incisione, veramente bassa, comunque le cose non marciano come nei precedenti lavori dell’ensemble, pur non mancando qualche bel momento, vivace e felicemente corale (principale pregio, riconosciuto, del collettivo).

E chiudiamo con l’ultimo album del sassofonista siciliano Francesco Cafiso, in nonetto (foto sopra), sulla falsariga di tutta una letteratura che, dalla Tuba Band di davisiana memoria (quasi settant’anni fa) in poi, attraversa la storia del jazz. In questo We Play for Tips (E Flat) c’è quel magistero ma anche tanto altro, e lo sforzo compositivo di Cafiso è senz’altro encomiabile. I risultati appaiono però sempre un po’ troppo derivativi, poco coraggiosi. Per uno che a tredici anni faceva saltare la gente sulla sedia (compreso un certo Wynton Marsalis) abbracciare strade più fuori dagli schemi può essere paradossalmente più difficile che per altri. Ammesso che il Nostro lo voglia, cosa che, giunto ormai alla soglia dei trent’anni, non è poi così scontata.    

Foto di Luca Valentini (Curran).


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