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Le Luci della Centrale Elettrica

Terra

Vasco Brondi, alias Le luci della centrale elettrica, è per chi scrive l’albero madre dal quale negli ultimi dieci anni sono cresciute tutte le radici del nuovo cantautorato indie, termine stra-abusato ma utile al fine di racchiudere con una sola parola un mondo musicale certamente sfaccettato al suo interno ma che per consuetudine si accomuna intorno ad alcuni elementi fissi. Del perché non sia il caso di mettere nello stesso calderone Brunori sas e i Thegiornalisti, avremo forse modo di riparlarne in futuro, ma Brondi è certamente una delle sorgenti dalle quali i fiumi che vediamo scorrere oggi hanno avuto origine.

Vasco Brondi
è la sorgente perché è il primo in questi anni duemila, o meglio il primo a farlo in un modo molto evidente, a contrapporsi al cantautorato anni Settanta, quello per capirci narrativo, quello che per stile, uso del linguaggio, rilevanza della parte musicale nella costruzione del brano, esecuzione sul palco, ha appiccicato addosso al termine “cantautore” quell’universo di senso comune che ci fa mettere dentro Vecchioni e non Tiziano Ferro, seppur entrambi scrivano e cantino le proprie canzoni.

I brani de Le luci smettono di colpo di essere storie da raccontare, perdono tutta la loro linearità e vengono lanciati fuori come sequenze di film, sequenze perlopiù spezzate, frammentate, messe una dietro l’altra senza apparente senso, dove non interessa a nessuno cosa è accaduto prima e cosa accadrà dopo, e prende significato di conseguenza solo l’ora, l’istante. Quello stralcio di film ha un orizzonte chiuso e lo sguardo è su quel “poco” che lo circonda, il personaggio principale è quasi sempre l’io, e i colori sono scuri, fatti di ombre, metallizzati. Che le parole, nelle canzoni di Brondi, abbiano davvero un significato, ed uno solo, poco importa. Forse non ce l’hanno. Forse non sono neanche costruite per avercelo.
 

"c'eravamo abbastanza amati/poi siamo volati su dei campi di grano rettangolari/non pensarmi non pensarmi/mi dicevi mentre atterravi tra i tuoi capelli dei fiori di camomilla/dei fiori diventavano rossi/i tuoi 23 anni i miei 26 anni/alla radio hanno detto che i nostri corpi hanno causato solo alcuni rallentamenti"
(C’eravamo abbastanza amati, EP omonimo – 2011)

Questo è solo un esempio di come le parole siano usate davvero poco per comunicare ma molto per trasmettere percezioni, giocando sulla contaminazione dei sensi, sull’accostamento di universi sensoriali che siamo soliti mantenere distinti; banale dire quanto per Brondi sia le figure retoriche sintattiche, ma ancora più quelle semantiche, siano il costrutto sul quale si reggono i brani. Chi lo critica dice che nelle canzoni c'è solo questo, chi lo ama, lo ama soprattutto per questo.

Costellazioni il precedente album (2014). Uno dei migliori dischi di questi anni, nel quale, vuoi per una crescita anagrafica dell’autore vuoi perché restare sempre uguali a se stessi è il peggior augurio che si possa fare ad un artista, il mutamento rispetto ai dischi precedenti era ben evidente. Le chitarre elettriche di alcuni brani, il crescendo melodico di un brano come Le ragazze stanno bene, il piano di I Sonic Youth che sul finire si amplia ad archi e chitarre distorte, sono solo alcuni cenni per sostenere quanto questo nuovo album, Terra (Tempesta Dischi, marzo 2017), aveva alcuni embrioni riconoscibili già allora.

Una linea melodica più evidente, un cantato che non è ancora canto ma non è più solo il parlato di Canzoni da spiaggia deturpata, uno sguardo che si è alzato dalla propria strada per guardare quelle che portano più lontano. Partendo per poi tornare. Questo Terra si porta dentro esattamente quello che è racchiuso nel titolo, tutto. E se tutto non ci sta in un disco, Brondi prova a metterci dentro molto. Molto dal punto di vista musicale, suoni mediterranei di chitarra acustica, archi balcanici, tamburi africani, e molto anche per ciò che ci racconta, storie “piccole” di una provincia veneta, storie “grandi” del nostro tempo di (in) guerra.

Apre il disco il brano A forma di fulmine nel quale basterebbe citare il verso «possiamo navigare a vista senza regole/avere tutto da vincere e niente da difendere» per avere un’idea di cosa voglia dire per un artista, essere capace, per davvero, di riassumere con poco il tanto, il troppo, nel quale ognuno di noi è immerso quotidianamente. Coprifuoco e Chakra sono altri due brani sui quali vale la pena soffermarsi; il primo mette assieme le cose (materiali e non) di cui l’umanità può andare fiera di contro a quelle che hanno creato solamente distruzione. Chiedersi come ha potuto l’uomo, lo stesso Uomo, inventare le guerre di religione e la Tour Eiffel, e ancora di più le armi di distruzione di massa e le canzoni d’amore, è forse un gioco che nella sua ingenuità può trovare spazio solo in una canzone, ma dà vita ad un ritornello che si incastra alla perfezione in un brano che è tanto concentrato sul vicino, su quello che ci vive accanto, tanto sul lontano «dove c’era un minareto o un campanile/ c’è un albero in fiore tra le rovine».

Mettere assieme, accanto, pezzi di immagini distanti per chilometri e per coinvolgimento/vicinanza emotiva smette di essere solo un tessuto sul quale costruire un brano e diventa esso stesso significato, e simbolo dei giorni in cui viviamo, in cui passiamo senza soluzione di continuità dalla notizia del vicino di casa che spara alla moglie alla distruzione della guerra in Siria; giorni dove i colori della nostra personale relazione con il mondo esterno variano di intensità ad una velocità che non sappiamo più controllare. Chakra è invece il brano dove il passaggio di Brondi, in corso e certamente ancora non concluso, verso un diverso utilizzo della voce e un altro uso della melodia si fa più evidente, dove anche il racconto è impercettibilmente meno frammentato e quindi più leggibile. L’emozione che ne consegue è fluida ed onesta. 
 

Questo Terra è un buon disco, senza gridare inutilmente al capolavoro. È un buon disco perché è il lavoro sincero di un artista che ha sempre scritto e prodotto album in modo unico, senza voler assomigliare a nessuno (decisamente fuoriluogo il paragone al cosiddetto ermetismo di De Gregori), perché è un album di qualcuno visibilmente in movimento, che certo è roba forse noiosa da critica mettere su una linea tutti i dischi de Le Luci della centrale elettrica ma è impossibile non accorgersi di quanto pur rimanendo fedele a se stesso stia riuscendo a modellare, scalfire e andare in profondità nel proprio talento. Ed è un buon disco, in ultimo, perché Brondi questi tempi frastagliati, veloci, di overdose di informazioni, sotto impulsi sonori e visivi senza sosta ventiquattrore al giorno, non li racconta solamente ma ne incarna il linguaggio, rendendolo vivo. Trasforma, plasma, la lingua secondo le regole di costruzione dell’oggi, la usa sì come strumento per descrivere il fuori ma soprattutto la modella secondo gli impulsi che dal fuori gli arrivano; e ci ridà indietro su una tela un po’ del caos nel quale siamo immersi, come in quadro espressionista dove non facciamo fatica a riconoscere un po’ di quello che siamo. 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Vasco Brondi e Federico Dragogna
  • Anno: 2017
  • Durata: 36:00
  • Etichetta: La tempesta

Elenco delle tracce

01. A forma di fulmine 02. Qui 03. Coprifuoco 04. Nel profondo Veneto 05. Waltz degli scafisti 06. Iperconnessi 07. Chakra 08. Stelle marine 09. Moscerini 10. Viaggi disorganizzati

Brani migliori

  1. Coprifuoco
  2. Chakra
  3. A forma di fulmine