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Moonlogue

Sail Under Nadir

Il nostro disco racconta un viaggio attraverso scenari estremi, dove l’esasperazione del progresso, l’avidità e la smania di controllo hanno consumato il mondo in cui viviamo”.
Con queste parole i Moonlogue, gruppo originario di Torino, riassumono il loro album d'esordio Sail Under Nadir. La band propone musica strumentale, elaborata ma fruibile, che si muove fra progressive, math rock e space rock, con uno spiccato appeal radiofonico, a tratti quasi dance ed electro. Siamo nei territori cari ai Battles, ai nostrani Calibro 35, al duo Darkside, Mogwai e Public Service Broadcasting, assieme ad echi dei Daft Punk di “RAM”; tuttavia, il disco è animato anche da un profondo legame con le sonorità che portano a nomi storici come i Pink Floyd, i Radiohead e la produzione di Jack White.

In sostanza, Sail Under Nadir è una sorta di concept album che fonde un tema ambientalista ad una storia di stampo fantascientifico, sulla falsariga di Isaac Asimov. L'astronauta terrestre Estéban capta le richieste di soccorso provenienti da un misterioso pianeta morente e decide di partire in missione esplorativa; in seguito, scopre che l'allarme è stato lanciato proprio dalla Terra. Nel corso dell'esplorazione diversi problemi vengono messi in risalto, come lo scioglimento dei ghiacciai (Moonflares), l'inquinamento dilagante (Nuage) e questioni di natura più politica e bellica (Borderland e Zwangslage).

All'interno del disco la storia è narrata dal professore australiano di Letteratura inglese Oliver Hutchinson, sotto forma di messaggi e distorte profezie, a partire dalla dichiarazione d'intenti dell'inquietante intro 01 (“It will change the way you think about the future, it will change the way you think about humanity, it will change the way you think about the fabric of the universe“). Ed è già con Graphite, seconda traccia dell’album, che si cominciano a capire gli elementi portanti dell'estetica dei Moonlogue: il groove ossessivo di una batteria scheletrica, assieme a un basso solido e granitico, sostengono l'imperversare di algide linee di sintetizzatori, che a loro volta danno manforte a un'agile quanto devastante chitarra elettrica.

Il primo momento di ‘tranquillità’ è affidato al singolo Estéban, caratterizzato da un flow scorrevole e sognante, presto funestato dall'invasione di un distorto assolo, a metà fra St.Vincent e Jack White; il connubio è impreziosito dall'elegante chitarra acustica di Alessandro Osella. Un crepuscolare Wurlitzer introduce Grains, brano epico e sognante, che comincia a portare l'ascoltatore verso l'ignoto, ma Borderland restituisce immediatamente un'atmosfera più brillante, vagamente Talking Heads, complice la collaborazione del trombettista Cesare Mecca. Il giro di boa avviene con la schizofrenica Moonflares, desiderosa di infondere un senso di urgenza tramite esecuzioni nervose e ossessive, degne dei primi Arctic Monkeys; tuttavia, durante l'ascolto della traccia cresce la voglia di incontrare una sorta di deflagrazione che sembra non arrivare mai a piena potenza, ma questo non impedisce di godere delle cristalline intelaiature sonore. Proseguiamo l’ascolto e incontriamo Nuage, scelto come secondo singolo, il brano più “convenzionale” della tracklist, ma forse per questo motivo è il più diretto nell'esprimere un senso di gravità, seppur con passaggi tanto gradevoli da essere quasi cantabili: una “forma-canzone” basata sulla ricorrenza di un memorabile riff di basso, inserti di tastiere alla Doors e momenti di esplosiva epicità che trasudano Pink Floyd.



Attraverso il suono di un telefono modulato fino al parossismo, si scaglia su di noi la minacciosa e violentissima Treeless, che ci porta gradualmente ad uno degli episodi più interessanti del disco: Zwangslage. Quest’ultimo, con i suoi mutamenti ritmici e la continua evoluzione sonora, ti tiene costantemente sull'attenti senza mai cristallizzarsi; insieme, questi ultimi due passaggi rappresentano il momento in cui la distruzione raggiunge l'apice, prima che il suono di un temporale porti l'ascoltatore verso il finale. La malinconica Rainyard, in cui i delay delle chitarre diventano gocce di pioggia in un paesaggio desolato, mostra una vastità oramai irrimediabilmente consumata.  Una chiusura dolorosa, che suona come un ammonimento, sebbene quasi immediatamente alleggerito dall'epilogo 00, che lascia intravedere ancora una possibilità di salvezza.

Questa la prima fatica discografica dei Moonlogue, un'opera intensa e stratificata, costruita con una consapevolezza più elevata rispetto a quanto ci si aspetterebbe da un gruppo al suo esordio. Il fatto che l'album sia auto-prodotto non si ripercuote sul livello delle registrazioni e nemmeno sulla composizione dei brani: ogni movimento è calcolato, ogni elemento si incastra con precisione con l'ambiente circostante e questo aspetto infonde nell'ascoltatore una meravigliosa parvenza di equilibrio, anche se alle volte tende a smorzare alcuni momenti di potenziale esplosione. Segnali di un amalgama già rodato, che gli permette di lavorare in piena libertà e quindi di sfruttare al meglio le dinamiche legate al fare tutto in autonomia, a partire dalle fasi creative (tutti i brani sono firmati dai quattro componenti), così come anche la produzione, registrazione e missaggio. Parlando nello specifico dei suoni, anche in questo caso l'approccio do it yourself non si traduce in scelte superficiali, nonostante l'album abbia mosso i primi passi in un box auto. È evidente però che le tracce di basso e chitarra siano state incise con tutti i crismi in un ambiente controllato (come riportato nei credits) e il risultato è uno degli elementi sonori più gradevoli dell'intero lavoro. A tradire vagamente il ‘luogo d'origine’ è il suono della batteria, un po' più scarno e meno “avvolgente” rispetto agli strumenti della quale è circondata; eppure, all'interno del mix finale, è proprio questa mancanza di magniloquenza a creare la giusta quantità di spazio, grazie alla quale chitarre e sintetizzatori possono svilupparsi adeguatamente. In conclusione, parliamo di un lavoro affascinante e decisamente valido, realizzato con attenzione e competenza.

In un certo senso, se un ascoltatore si approcciasse a "Sail Under Nadir" senza alcuna nozione riguardo gli autori, potrebbe scambiarlo quasi per il terzo album di una band attiva da qualche anno piuttosto che l'esordio discografico di quattro ragazzi che messi insieme non arrivano a 100 anni. Ma proprio per questo, se già al primo lavoro risultano così convincenti, i segnali per un secondo album non possono che essere più che positivi.

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Moonlogue
  • Anno: 2020
  • Durata: 43:02
  • Etichetta: Autoprodotto

Elenco delle tracce

01. 01
02. Graphite
03. Estéban
04. Grains
05. Borderland
06. Moonflares
07. Nuage
08. Treeless
09. Zwangslage
10. Rainyard
11. 00

Brani migliori

  1. Estéban
  2. Nuage
  3. Zwangslage

Musicisti

Lorenzo Riccardino: chitarre  -  Mattia Calcatelli: batteria  -  Federico Mao: basso  - 
Edoardo Campo: Sintetizzatori, sequenze ritmiche e vocali - Oliver Hutchison : voce narrante - Alessandro Osella: chitarra acustica in Estéban - Cesare Mecca: tromba in Borderland