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La musica seriale e l'industria discografica

Contro il riciclaggio della Canzone d'Autore

Il taylorismo della canzone è una brutta abitudine. Serializzare prodotti destinati alla cultura è degenerazione.

Potete chiamarla superficialità, assuefazione dei sentimenti, perdita dell'originalità compositiva, furbizia commerciale ma il risultato non cambia: la musica non è più la stessa, paradossalmente rimanendo se stessa.

E' una tendenza oramai diffusa quella che porta una buona parte della musica mondiale (italiana per quel che importa a noi) ad essere autoreferenziale senza limitarsi a farlo, ricorrendo a saccheggiare gli strumenti di scrittura validi e istintivi utilizzati in passato da cantautori di tutto rispetto, imparando così a sfruttare queste efficaci funzioni con altri deludenti intenti di carattere palesemente economico. Accade così che la maggior parte dei nuovi filoni musicali cerca di inglobare all'interno dei suoi manifesti elementi di ricercata verità, autobiografismo musicato, disinteresse per una musica di tipo gastronomico, tutti elementi che fino a qualche anno prima appartenevano esclusivamente alla canzone d'autore.
Questa abitudine ha preso piede con la degenerazione (col tempo e non sul nascere) di generi musicali quali la Disco Music, il Punk, il Pop e quindi la meccanizzazione elettronica della musica che hanno confuso del tutto il messaggio, portando in giro una musica ormai priva di spontaneità compositiva spacciandola spesso per musica vera.
L'eco di questa moda si sente (e come) ancora oggi; tuttavia una prospettiva di soluzione esiste. E risiede nella continua e mai stanca ricerca di autenticità cantautorale, ancor meglio se perseguita lontano da corruzione discografica, senza dover abbandonare però l'assoluta e necessaria rilevanza del mezzo commerciale. Concordo nel fatto che, di primo acchito, una frase di tale sostanza tanto scontata quanto abusata e retorica possa risultare fastidiosa e prepotente. Ritenere comunque che, nella seppur controversa, ridondante e apparentemente superficiale ovvietà di tale affermazione, possiamo (ri)trovare il senso di una canzone oramai assopita, ri(scoprendo) così un fertile terreno di emozioni miracolosamente ancora in vita, può permettere alla canzone italiana di tornare finalmente a far parlare di sè, dimostrando di avere ancora molte cose da dire.

Il buon Luigi (Tenco ndr) questo ci ha insegnato: è necessario firmare le canzoni di intenti sociali, politici, amorosi, religiosi o di semplice intrattenimento, senza allontanarsi dal comune denominatore: il destinatario. Qualsiasi produzione artistica difatti rappresenta un fatto sociale che, una volta liberato, diventa un bene comune.
E' attraverso questa forma d'arte chiamata canzone che parliamo per la gente, attraverso un messaggio che avrebbe bisogno (il condizionale è d'obbligo) per sopravvivere ed essere accettato dal pubblico stesso di comunicare una verità non forzata, soprattutto mai banale (questo lo aggiungo io). Mandare in giro una bestia non solo pericolosa ma soprattutto fuorviante, può solo peggiorare la situazione, rendendo ciechi gli orbi e tappando le orecchie ai sordi.

La situazione è andata cambiando nel preciso istante in cui produttori e manager sono riusciti ad appropriarsi dell'effimera formula magica della canzone, volendo proiettare quell'originalità tematica e compositiva degli anni 50-60-70 in pezzi smaccatamente commerciali, il tutto grazie ai fabbricanti di canzoni (ex autori) che favoriscono l'evoluzione di questo mercato falsamente autentico.
Tutto ciò accade perché il trucchetto del gioco è stato svelato e per farlo è bastato un solo decennio, facciamo venti. Quel che serve è l'immediatezza, l'orecchiabilità, la facile presa, dicono loro. Riciclare dico io.

Dove risiede quindi la problematicità in questa musica seriale?

L'arcano è presto svelato: nel conformismo autoriale (ed ecco rivelato il trucchetto). Quell'istinto musicale al quale gli autori di una volta ci avevano dolcemente abituati (i vari Bindi, Lauzi, De Andrè e Tenco su tutti) viene preso ormai a modello da Major discografiche e addetti ai lavori, i quali utilizzano quegli standard di successo per creare prototipi di canzoni vestite di vero senza essere giustificati a farlo, mascherando al grande pubblico l'artificiosità del novello prodotto e lasciando spazio all'inflazione musicale. Come spesso accade infatti è lo stilista che crea il modello, i sarti quelli che cuciono. La scelta del vestito, fortunatamente, rimane appannaggio della gente.
Nasce così una sempre più diffusa e influente musica di plastica, nel contempo in cui cominciano a sparire i secchi dove poterla gettare.

 


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