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Stefano Orlando Puracchio

Rock Progressivo, una guida

Ok, d’accordo, il progressive non vi ha mai entusiasmato… anzi, peggio, il solo sentirlo nominare vi provoca improvvise orticarie musicali oppure, per i meno interessati, uno sconcertato: “Prog… che???”; e poi, diciamolo chiaro… tutte quelle chilometriche sbrodolate che “loro” definiscono suite, quel suonarsi addosso per far sentire a tutti “… ma quanto sono bravo…”, ore ed ore di parti strumentali senza dire due parole, ed assoli su assoli, una specie di gara a “chi ce l’ha più lungo”… (l’assolo, si intende…). Voi, per i quali la semplicità in fondo viene prima di tutto, voi che: “Beh, si… gli Stones sono cinquant’anni che fanno la stessa cosa, però vuoi mettere?...”, voi che se un pezzo non lo puoi fischiettare, allora che roba è? In fondo anche la Quinta di Beethoven la puoi canticchiare, non tutta, ma almeno l’introduzione… qui, invece, ogni cinque minuti tocca ripartire daccapo per ricordarti come faceva all’inizio…

Tranquilli… Stefano Orlando Puracchio, con il suo Rock Progressivo, una guida, non vi vorrà convincere che avete sbagliato tutto, che non avete capito nulla, non squarcerà il velo del tempio delle vostre conoscenze musicali… tuttavia vi inviterà a guardare a questo (meta)genere (o categoria musicale, o…) con un occhio diverso, modificando non tanto l’oggetto in esame quanto il punto di vista dal quale lo si inquadra. 
Intanto vi spiegherà, e lo farà insieme ad alcuni protagonisti del settore intervistati per l’occasione, che un “movimento” prog non esiste, non è mai esistito, per lo meno in senso tecnico, esattamente come non sono mai esistite la “Scuola di Canterbury”, la “Scuola Romana” o quella “Genovese”… semplici definizioni buone per i giornalisti, per i redattori che, non trovando una terminologia adeguata a spiegare fenomeni culturali complessi, hanno pensato bene di condensarli in una definizione sufficientemente “non complessa”.

Inoltre vi racconterà che, ad un certo punto, (non all’inizio degli anni ’70, come comunemente affermato, ma già verso la metà degli anni ’60…) alcuni musicisti hanno iniziato a mal sopportare la ristrettezza dei soliti giri, dei soliti schemi, delle solite battute; il blues, il rock and roll, il beat, erano generi (e non ce ne vogliano i loro estimatori...) che a qualcuno iniziavano ad andare “stretti”… e poi c’era la musica classica, che tutto sommato è sempre stata un po’ la “nonna” di tutto e che, come tante nonne, era stata piazzata di là, sul dondolo… ma che con la sua profondità, con la sua storia, con la sua complessità stimolava idee, attirava l’attenzione, in una sorta di sfida in cui i famosi “Concert for Group And Orchestra” furono solo i primi episodi.

Ed allora, perché ragionare a compartimenti stagni, per cui un certo “genere” non poteva essere mescolato con un altro? In base a quale schema preordinato la regola doveva essere quella di “preservare” la (presunta) purezza di un genere, senza poterne utilizzare parti, più o meno ampie o rilevanti, per creare altro? Desiderio di andare “oltre”, di progredire… in fondo il termine “work in progress” significa, “lavoro in corso”, e quindi qualcosa di iniziato, ma di non finito, un’idea in movimento, nata ad un certo punto ma che da quel punto tende a distaccarsi per muoversi verso altri territori, per lo più senza conoscere precisamente il punto di arrivo anzi, talvolta senza porselo proprio, quasi fosse una sorta di “… vediamo fin dove arriviamo, poi…”.

Nulla di prefabbricato, dunque, nulla di schematicamente già visto (o meglio sentito…), ma soprattutto nulla di preparato a tavolino, incluse le cover degli album, spesso vere e proprie opere d’arte prestate alla musica… un moto artistico spontaneo che ha via via coinvolto musicisti del tutto eterogenei: transfughi del jazz, ma anche del rock, virtuosi un po’ incompresi ma anche musicisti “quadratissimi” che, ad un certo punto hanno scoperto che da quegli schemi in cui si erano sentiti incasellati si poteva anche uscire e, perché no, che la cosa era anche divertente.

In questo senso rimane a suo modo “storica” l’inserzione di Steve Hackett sul Melody Maker, poco prima di entrare nei Genesis, uno scritto che recitava, più o meno: “…chitarrista/compositore cerca musicisti di larghe vedute, decisi ad elevarsi al di sopra delle odierne e stagnanti forme musicali…”; ecco, è proprio quell’andare oltre la chiave di lettura per comprendere la necessità, l’urgenza di molti di questi musicisti altrimenti “condannati” a una prevedibile quanto noiosa reiterazione di cose già sentite e già suonate. 
Arroganza? Forse… Mancanza di umiltà? Probabile, ma è un fatto che le doti tecniche, artistiche, le idee innovative che questi musicisti stavano rimuginando compensavano ampiamente queste fughe in avanti; del resto i grandi geni magari non sempre ostentano le proprie capacità ma ne sono quasi sempre, dentro di sé, perfettamente consapevoli…

Il progressive, quindi, simile ad un magma ribollente che, dopo aver assorbito, macinato e rielaborato generi ed approcci differenti, contrariamente a quanto si può pensare non produsse (e non produce neppure oggi…) un esito univoco ma si diramò in decine di rivoli differenti, dai quali nel tempo, a volte in modo palese, altre volte in maniera più “carsica”, si sono sviluppate diverse forme musicali che a tutt’oggi hanno grande rilevanza, un pubblico assai affezionato e (spesso) competente, e mantengono, quando non ampliano, la capacità di attrarre anche gli ascoltatori più giovani i quali talvolta, solo a posteriori, scoprono che le radici musicali dei propri beniamini (ipertecnici, iperveloci, iperfashion…) affondano la loro essenza in quella sorta di “brodo primordiale”. 
Spontaneità, azzardo, gusto per la sfida, desiderio di ricerca, ambizione a spingersi oltre i limiti tecnici e/o compositivi sono alcune fra le caratteristiche che contraddistinguono l’avventura progressiva: aspetti che non si troveranno mai, soprattutto nel periodo’60/’70, sono invece la “costruzione a tavolino” della musica, come già detto, ma anche l’analisi del potenziale pubblico e quindi lo sviluppo di un modo di suonare/cantare/porsi basato su ciò che l’audience potrebbe voler sollecitare.

Il prog fu, fondamentalmente, sia dal punto di vista artistico che (soprattutto) da quello commerciale, un salto nel vuoto, un rischio assai poco calcolato i cui esiti furono per anni tutt’altro che scontati; il grosso successo, paradossalmente, come si coglie in diversi passaggi del volume, fu sostanzialmente postumo, fu un successo “di ritorno” e si verificò quando nuovi generi, più recenti, palesarono l’origine di parecchie scelte musicali e ne rivelarono i veri “responsabili”… 
Ora, è difficile, o per lo meno improbabile che, dopo questa lettura, tutti quanti diventino dei fan accaniti e si catapultino alla ricerca di album finora sconosciuti… tuttavia se a qualcuno sorgerà il (legittimo e non improbabile) sospetto che fra ciò che ascolta oggi ci siano citazioni o riferimenti a qualcosa di… “strano”, beh, una ricerchina più approfondita vale la pena di farla: si potrebbero scoprire cose che “voi umani”… 

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In dettaglio

  • Artista: Stefano Orlando Puracchio
  • Editore: Simplicissimus Book Farm Srl
  • Pagine: 101
  • Anno: 2014
  • Prezzo: 4.99 €

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