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Elisa Giobbi

La morte mi fa ridere, la vita no

Un titolo ciampiano per un libro scalpitante e che si dipana in modo accattivante tra i maledetti e i dimenticati della canzone italiana. E che sembra persino volerci dire, respingendo fatue superficialità, che fare musica nel nostro Paese, oggi come ieri, tra le tante ipotesi da prendere in esame, c’è anche da calcolare quella del rischio. Economico, esistenziale, interconnesso. Relazioni umane, incomprensioni, vulnerabilità, dove l’individualità magari fatica a fare parte di una forzatura che si vuole di facile catalogazione e rispettosa delle regole. Ed è così che successo, oblio, soddisfazioni e sofferenze si trovano in limitrofi specchiarsi.

Elisa Giobbi dona un libro che sa essere in egual misura inchiesta giornalistica, almanacco intergenerazionale e che con agilità si destreggia tra forme caratteriali dei protagonisti e i loro usi nel proporre e nel proporsi. Attimi che sembrano non finire mai, nel bene e nel male, etichette che vengono appiccicate addosso, ricordi che si spostano in continuazione (spariscono, riappaiano in una sorta di austeri dinamismi). Scendendo scale, salendo sul palco, l’immergersi totale nella direzione in cui si vuole andare. Ma pure, ambiti in cui ci si può sentire a proprio agio oppure no. Insomma, storie in circuiti che di colpo possono tramutarsi in cortocircuiti. Tuffo visionario e il reale che risuona, anch’esso. Come se fosse un eco da compattare con le esigenze delle platee. Attente o disattente che siano. L’autrice fa una scelta di artisti che è di ampio respiro ed offre al lettore una singolare panoramica. Sull’onda del tempo che sancisce, ridisegna e scansa la trappola della facile retorica. Nella prima parte: Fred Buscaglione a bordo di un confetto-mobile rosa, un duro che però è solito spalancare le braccia, che gioca col jazz e assume parvenze alla Clark Gable in una fantomatica sua Hollywood dall’aria fumosa. Piero Ciampi attitudine punk anti-litteram, che trascorre molto del suo tempo nelle taverne livornesi con i suoi amici poeti, Parigi avanti-indietro, il suo rapporto conflittuale con la carta-moneta ed inquieto con gli spartiti. Luigi Tenco l’antimilitarista che poteva diventare ingegnere ma che invece volle tentare di svecchiare la forma-canzone nell’epoca del boom economico. Franco Califano uno che non ha mai voluto essere un omuncolo sbiadito, scegliendo così la strada degli eccessi e capace di fare diventare una parola come noia, sofferta poesia/imprecazione che più non si può. Gabriella Ferri che disse no alle passerelle della moda, Lei ragazza del Testaccio, preferendo reinventare tradizioni musicali e comunque vada: “grazie alla vita”. Mia Martini che per qualche grammo di hashish… da ex-ragazza yè yè a ugola d’oro malgrado le vigliacche maldicenze in un “reparto in cui non si fanno sconti”. Rino Gaetano snobbato (persino al Folkstudio veniva visto con sospetto), poi massificato grazie ad un’apparizione sanremese, addirittura enfatizzato dopo la sua morte e che ebbe a dire quando era ancora in vita: “ho fatto vari pezzi che parlano dell’immigrazione (…) non ho dipinto l’emigrante nella solita e trita iconografia (occhi lucidi, valigia di cartone e mamma in nero). A seguire, l’accorato appello della scrittrice: non ti scordar di loro. A ragione e quindi: Daniele Pace quante volte abbiamo sentito dire di “Pace-Panzeri-Pilat” e fra gli ideatori dei censurati Squallor. Ugolino calabrese come Rino Gaetano, piglio beat (magari) a sua insaputa e alle prese con una giornata alquanto bislacca, un po' alla Jannacci, un po' alla Freak Antoni. Franco Fanigliulo mimico, teatrale, ironico tanto da scordarsi persino di se stesso. Enzo Del Re cantastorie, non cantautore, vicino alle posizioni politiche di Lotta Continua, come strumento una sedia da sonorizzare, come cachet lo stesso compenso di un operaio. Stefano Rosso folky in Roma ma pure catapultato nella Bologna ’77, e allora senti cosa fo… (peccato per il mancato connubio artistico con Gabriella Ferri). Guido Toffoletti bluesman, Venezia-Londra andata-ritorno, invidiabili collaborazioni (Alexis Korner, Dick Heckstall-Smith, Mick Taylor ecc.) e che contribuì in modo significativo al blues revival in Italia alla fine degli Anni 70. Massimo Riva aspetto esile quanto mutazione coriacea sul palco, indispensabile per il successo di Vasco Rossi, artista emotivo, fragile ma pure stakanovista in anni in cui l’effimero la faceva da padrone. Elisa Giobbi scrive: “l’Italia non brilla per il peso che dà alla memoria e alla propria storia, per quanto gloriosa”e come rivalsa dedica alcune pagine anche ad altri artisti, in una sorta di “terra di mezzo” in cui vengono “rintracciati” Lucio Quarantotto, Clem Sacco, Mauro Pelosi, Herbert Pagani, Alfredo Cohen, Maria Monti, Donatella Bardi, Margot Galante Garrone e altri ancora. Tra le pagine, non mancano le trascrizioni dei testi di molte canzoni. Il volume è ulteriormente impreziosito da numerosi contributi e testimonianze. Tra cui quelli di Michele Manzotti, Enrico de Angelis, Elisabetta Malantrucco, Federico Guglielmi, Arturo Stalteri, Vito Vita, Timisoara Pinto, Claudia Riva. Che si abbinano ad una scrittura carismatica, per nulla nozionistica ed accademica, in cui “una pagina tira l’altra”. Si evitano inutili lungaggini e si viene subito al sodo (parafrasando… “il personale è artistico” e viceversa).

Narrazione pulsante, ricca di particolari e che centrifuga nel migliore dei modi elementi relazionali e vincoli etici. Un libro integro e trasparente. Da non mancare assolutamente. 
 

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In dettaglio

  • Artista: Elisa Giobbi
  • Editore: Arcana
  • Pagine: 238
  • Anno: 2020
  • Prezzo: 17.50 €

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