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Niccolò Fabi

Suonare la violenza

Niccolò Fabi, dopo oltre dieci anni passati a scrivere canzoni per i suoi dischi, si mette i panni del produttore e realizza Violenza 124: un album “multistilistico” composto dall’insieme di sei interpretazioni nate dalla stessa “cellula”, ovvero un’idea musicale originaria che il cantautore romano ha fornito a Mokadelic, Olivia Salvadori & Sandro Mussida, Boosta, Roberto Angelini, Gnu Quartet e Artale Afro Percussion Band dalla quale prendere spunto e sviluppare le loro visioni personali sul tema della violenza. Il cantautore romano ci ha parlato di questo progetto dimostrando ancora una volta le proprie doti di testa davvero pensante.


“Violenza 124” è la tua prima esperienza nel ruolo di produttore. Un progetto che si distanzia notevolmente dai tuoi precedenti lavori e che non ha le caratteristiche di un disco fatto da Niccolò Fabi. Perché un’avventura così diversa?
È un disco fatto da un amante della musica in genere, consapevole che come cantautore – che è solo una parte del mio essere musicista – posso raggiungere alcune cose e molte altre no, d’altra patte ognuno di noi ha dei limiti espressivi. Nel momento in cui metti le parole sulla musica tutto assume una personalità maggiore e preponderante. Questo, qualche volta, è anche un peso, oltre a rappresentare la forza delle canzoni che però, musicalmente parlando, sono un limite. Qualsiasi musicista sa che quando registra una base e poi deve mettere la voce è sempre un qualcosa di tecnicamente strano, è una fase delicatissima, oltre che una situazione emotiva molto forte. In “Violenza 124” c’è solamente il divertimento del musicista, che ha la possibilità di giocare con tante fonti di suono.

Com’è nata l’idea di un progetto così articolato?
È un po’ di tempo che per me la canzone, a meno che non scaturisca da un momento di meraviglia, rappresenta un recipiente poco interessante. Fino a oggi ho vissuto grazie alle canzoni, ma se non c’è qualcosa da raccontare non è giusto scriverle. Io ho sempre amato la musica e la canzone è l’aspetto che mi ha portato fortuna, ma non è quello per il quale mi sono avvicinato a questo mondo. I dischi non si vendono più, le canzoni con la grande motivazione vanno aspettate e non vanno ricercate, e allora mi sono detto: facciamo musica! Ho pensato a un mio desiderio: avere una serie di canali dove in ognuno ci sia un potenziale elemento arrangiativo, di un’identità musicale appartenente a mondi sonori diversi, che potesse anche essere un viaggio in territori musicali che non frequento, ma non perché non li ami, ma perché non sono coerenti con la mia storia da cantautore. Come musicista invece credo di poter scalare queste vette. Ho pensato a un lavoro collettivo, perché a volte mi sono sentito imprigionato in me stesso, e questo alla lunga ti annoia. Ho cercato musicisti che stimavo e che avessero linguaggi diversi. Per natura, visto anche la carriera di mio padre come produttore, ho una propensione a guardare alla musica anziché al cantante. Mi serviva un motivo per chiamare persone a lavorare e mi sembrava riduttivo radunarli per un mio disco. Dovevo dare una scintilla. Era difficile e ho avuto l’idea curiosa di riunire sette entità che potessero confrontarsi tutte con lo stesso tema, per vedere come, inizialmente, la stessa radice potesse trasferirsi in questi mondi. Un progetto così mi avrebbe dato modo di divertirmi e sporcarmi le mani. Inconsapevolmente volevo farli suonare insieme, come essere un “dio della musica” e avere la possibilità di unire e sovrapporre in maniera simile a come accade nella cultura hip-hop, dove si arrangia utilizzando campioni appartenenti a dischi diversi. Il rischio era quello di creare un caos che non avrebbe portato da nessuna parte.

Perché hai scelto la violenza come tema principale?
Perché speravo che venissero fuori questi venti secondi (in sottofondo ascoltiamo la partitura d’archi dello Gnu Quartet, ndr). Avevo bisogno di un tema che poteva dare ai musicisti un modo per arrivare a spingere al massimo l’acceleratore della loro espressività, in modo che io, nella mia testa, potevo creare delle onde musicali; con un range espressivo più quieto le possibilità dinamiche sarebbero state ridotte. Speravo che la violenza potesse sviluppare in loro, musicalmente, una tensione propositiva, poi anche perché il tema doveva essere collettivo, non volevo che fosse una storia personale, ma cercavo una pulsione umana fondamentale. Immaginando i loro linguaggi ho pensato che la violenza poteva soddisfare tutti questi aspetti.

Ti sei ispirato a qualcuno per realizzare “Violenza 124”?
Non in particolare. Avevo in testa un racconto, che non ricordo chi mi aveva fatto, riguardo a una modalità di produzione e registrazione di Daniel Lanois. Una volta in studio mi dissero che lui prendeva un brano conosciuto, per esempio “Let it be”, e poi chiamava gli strumentisti, uno per volta, per suonarci sopra, fino ad arrivare a togliere la canzone originale in luogo di una versione totalmente trasformata. In questo modo aveva la struttura di una canzone perfetta e un risultato musicalmente svincolato. Questo mi aveva molto incuriosito; non ho pensato di fare precisamente la stessa cosa e così ho costruito un binario molto aperto, senza melodia, per dare spazio all’espressività dei musicisti e poter fare una cosa molto più ampia.

La forma-canzone è giunta al capolinea?
La sensazione è che la canzone sia sulla strada dell’esaurimento già da tanti anni, e dopo Battisti, in Italia, è iniziata a scemare come equilibrio perfetto di musica e parole. È chiaro che, nel momento in cui chi scrive canzoni è particolarmente ispirato, rimane la via più adatta per esprimere la sensazione provata, ma dal punto di vista formale è indubbio che siamo arrivati alla fine. L’80% dei cantautori oltre i quarant’anni non sa più che dire, è solo un ripetersi.

Una volta hai dichiarato che: «Le canzoni devono nascere in modo naturale e non per soddisfare l’ansia di qualcun altro». “Violenza 124” è un disco fatto senza un committente: hai avuto tu stesso l’ansia di non riuscire ad arrivare fino in fondo?
Continuamente. È stato un travaglio durato un anno e mezzo. Un viaggio lungo: ho consegnato la cellula a ognuno di loro, poi hanno impiegato il loro tempo. Sono musicisti diversi anche come approccio: chi ha fatto cinque versioni, chi tutto in poco tempo. La cosa è stata lunga e articolata; alla fine abbiamo deciso di pubblicarla. Per me poteva solo rimanere un’esperienza; è stata una lezione di musica, di storia, d’arrangiamento e ho imparato tantissimo sotto ogni aspetto. Sono tornato a scrivere con più gioia; quando ti allontani dalle consuetudini poi le riassapori. Per me andava bene anche tenerla per noi.

È stata una sfida verso dei preconcetti nei tuoi confronti? Ti senti un po’ standardizzato?
Io sono standard come lo è ognuno di noi. Se volessi essere un reggae-man non sarei credibile. Ho le mie caratteristiche, ho fatto pace con le mie caratteristiche e sono un artista in movimento, senza negare la mia natura. Sono consapevole, non la sento come una condanna e ho voglia di esplorare nuovi territori.

Prima dicevi che la canzone è sulla strada dell’esaurimento. Non c’è proprio nulla che recentemente ti abbia colpito, magari tra i giovani?
Tra gli altri, sicuramente Le Luci della Centrale Elettrica. L’ho conosciuto su MySpace, mi incuriosisce la sua scrittura, lui è molto “violento”, affascinante, lo trovo contemporaneo, parla il nostro linguaggio e di cose attuali. Sono curioso di vedere come si evolverà il suo progetto.

Ma la violenza cosa è per te?
È un tema che mi ha sempre affascinato, proprio perché sono una persona non violenta. La violenza l’abbiamo e l’esprimiamo tutti, poi in qualche modo riusciamo a smussarla. Musicalmente so di non poterla esprime, perché la mia storia non me lo permette, ma non perché non la provi o non la consideri importante, ma perché magari ci vorrebbe la voce di Ian Gillan: ognuno ha le sue chiavi stilistiche. Dal punto di vista concettuale è una pulsione sfaccettata, con la quale si poteva lavorare bene, un po’ come l’opposto dell’amore.

Pensi che sia l’espressione che più si addice ai giorni che viviamo?
È indubbio che l’espressione che più si addice ai giorni nostri è la banalità. È evidente che per la velocità con cui abbiamo portato le nostre comunicazioni, sia interpersonali che medianiche, l’articolazione di un pensiero è meno attuale perché non c’è tempo di svilupparlo. E la violenza può essere un gesto estremamente banale, nel senso di evidente, poco complesso, immediato e facilmente comprensibile. Nella nostra società la violenza è privilegiata perché facilmente duplicabile, rispetto a un gesto non violento che ha alle spalle un pensiero complesso. Si tende a considerare l’aggressività molto più semplice.

È un processo irreversibile?
La violenza è anche energia, fonte di vita, non solo rozzezza e sconfitta del pensiero. Dal punto di vista sociale non so che trasformazioni ci possono essere per recuperare un certo discorso. Purtroppo non vedo grandi spiragli; storicamente l’unico antidoto è stata la guerra, per liberarsi di questa aggressiva talmente spaventevole e ripartire da un coabitazione più pacifica. D’altra parte non possiamo augurarci che ci sia una guerra così potente da un punto di vista emotivo, che andrebbe vissuta sulla nostra pelle, e non come il videogioco che vediamo nei telegiornali in tv.

Il contrario di violenza è pace, ma anche serenità. Ai tempi di “Sereno ad ovest” hai detto: «La serenità sta da un’altra parte e non sopra di me. Ho la sensazione di intravederla, e quindi di sapere la direzione da seguire per arrivare da lei. E forse è solo il primo passo per poterla raggiungere». Oggi ti senti sereno?
Sto molto più “ad ovest” rispetto a questa dichiarazione. Se prima la vedevo giù in fondo, adesso la sento più vicina.



(11/11/2008) 

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