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Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

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Dente

Quello che mi viene

Giuseppe Peveri, in arte Dente, ci accoglie calorosamente nella sua abitazione milanese: è uscito da pochi giorni il suo terzo disco, L’amore non è bello, un lavoro più compiuto in cui si riconferma una delle nuove voci più interessanti del panorama cantautoriale italiano. Parliamo di questo ultimo album e delle succose novità all’orizzonte in questa intervista.


Hai dichiarato che per scrivere canzoni è fondamentale “innamorarsi e starci male”. Questo disco, “L’amore non è bello”, è figlio di questa filosofia?
Beh sì, quello che scrivo è quello: le cose che ho dentro, o che non riesco a dire a voce, le cose che ho lì, che mi stanno addosso e mi danno un peso, dopodiché le butto fuori in quel modo lì. Fortunatamente ho questa valvola di sfogo: naturalmente non risolvo assolutamente nulla, però mi sento meglio. L’amore non è bello è un titolo un po’ forte, è stata una scelta anche dettata dal fatto che tutti i dischi che ho fatto avevano giochi di parole o frasi fatte un po’ modificate: ho troncato la seconda parte e il senso si è ribaltato completamente.

Nei testi, adotti sempre una lente apparentemente ingenua e diretta: questo distacco ironico ti serve a “elaborare il lutto” emotivo? I tuoi testi sono davvero così diretti e viscerali come sembrano?
L’autoironia è una cosa che uso come scudo, è una cosa importante che mi ha salvato tante volte nelle faccende personali. Serve anche a sdrammatizzare: facendo canzoni, non puoi vomitare addosso alla gente le tue paranoie. Poi io sono fatto un po’ così, scherzo molto sulle cose e sono disilluso in generale. Poi, non sono bravo ad analizzare le mie canzoni, perché scrivo abbastanza di getto e scrivo quello che mi viene, non penso a un pubblico. Non penso ad altri che a me stesso – è una cosa brutta da dire: quando lo dico, la gente fa “schifoso che sei!”… ma è così, non penso a fare i dischi, almeno per adesso. Se devo fare tredici canzoni per un disco nuovo, non mi metto a farle: adesso è un po’ che non scrivo più niente, è un periodo parecchio felice e va abbastanza bene. Poi quando mi succedono le tragedie ne butto giù anche cinque in un giorno.

In questo disco sembri aver raggiunto una consapevolezza maggiore di testi e composizione. Nel disco si sente un utilizzo molto più mirato ed efficace dei synth, e gli arrangiamenti sono molto più ricchi: la situazione di produzione è cambiata rispetto ai dischi precedenti?
È cambiata anche per possibilità: anche il disco vecchio avrei voluto arrangiarlo di più e registrarlo meglio, ma non c’erano i mezzi per farlo. Quindi quei demo che mi ero fatto in casa son diventati il disco: ho sofferto un po’ a pubblicarlo così, perché secondo me le canzoni avevano una potenzialità più grande. Però ci sta anche così, mi piacevano comunque quelle versioni. Questa volta avevamo la possibilità di avere uno studio, di avere dei musicisti e tutto quanto, e mi sono sbizzarrito un po’ di più: ho voluto buttarmi sugli arrangiamenti e fare un disco che suonasse come un disco. Anche l’ep (“Le cose che contano”, ndr), per quanto fosse arrangiato, era un live in studio abbastanza grezzo – certo arrangiato bene e suonato stratosfericamente bene, poco stato curato, registrato in due giorni. Qui ci siam presi il nostro tempo: preproduzione, poi studio, sovrincisione, poi mixato in studio. Ci siam presi il tempo che ci voleva per fare un disco.

Le atmosfere di questo disco richiamano quello che è il tuo artista di riferimento, Lucio Battisti: altri artisti, specie nella scena cantautoriale italiana, che nascono chitarristi come te riconoscono un profondo debito nei confronti di questa impostazione prettamente melodica. Pensi che sia una rotta che possa ancora dare qualcosa alla musica italiana? Hai anche altri artisti di riferimento – ad esempio, sento molto degli elementi alla Kings of Convenience?
Con Battisti ho un rapporto molto intimo, personale: è un artista che ascolto da sempre, da quando son bambino, a dodici anni compravo le cassettine e tutto quanto. Non so cos’è, l’ho amato tantissimo, e quando ho cominciato a fare musica – e non avevo neanche idea di far musica nella vita – avevo dentro questo amore per la melodia. Poi non ascolto solo quello, ma è un personaggio pazzesco come musicista, interprete e arrangiatore: i dischi più belli che ha fatto li ha arrangiati lui. La gente che si rifà a lui ben venga: è una riscoperta un po’ stupida, però è stato un grandissimo artista. Fondamentalmente mi ha influenzato a livello inconscio, anche per le melodie che trovava lui – molto legato a quello che è successo con i Beatles – un uso della melodia che davvero non sai come fa a trovare, alla fine son quattro accordi. Anche l’uso delle parole: io sento molto quando uno scrive un testo e lo butta sopra la musica, anche perché l’italiano è una lingua un po’ stronza. Le parole vanno fatte suonare, e insieme a “quell’altro là” che gli scriveva i testi, erano capaci di farlo. Anche i Kings of Convenience, a me piacciono molto per atmosfere e chitarre, anche Belle and Sebastian: poi non sono un fan accanito, ascolto anche cose che non c’entrano niente con quello che faccio – come Tom Waits, che mi strapiace.

Sempre a livello di riferimenti, c’è qualche influsso letterario o cinematografico o quant’altro che ti influenza nella composizione?
Sono abbastanza ignorante a livello di cinema o letteratura. Leggo letteratura, ma non sono un grande esperto, non leggo tantissimo – ho finito oggi in treno l’ultimo di Genna. Leggo cose che mi ispirano o che mi consigliano, ma non ho l’autore preferito.

Parli di sentimenti, di quotidianità: non hai mai pensato di lanciarti in un pezzo più impegnato?
Non mi viene naturale, non penso molto a quello che sto scrivendo: non penso “adesso scrivo una canzone su questo argomento”. Ieri leggevo una bellissima intervista a Morricone, dove lui rideva molto quando gli parlavano di ispirazione artistica: “l’ispirazione artistica mi fa ridere, io lavoro. Quando mi dicono fai la colonna sonora, io prendo le scale e faccio la colonna sonora, non prendo ispirazione da niente”. E quella è stata una cosa che m’ha fatto sentire un po’ male, non m’ha fatto sentire un professionista (risate, ndr). Non riesco a scrivere di cose politiche e sociali, non che non m’interessi, ma non riesco a riversarlo nella musica. È anche passato un po’ l’epoca, secondo me: mettersi lì con la chitarra e fare Contessa dopo trent’anni mi sembra un po’ sciocco. Certo, è bello, è importante, però i linguaggi sono cambiati parecchio in questi anni: se vuoi far lotta politica, devi seguire quello che succede, non puoi metterti ancora a fare Pietrangeli, perché i ragazzi di sedici anni ti sputano in faccia.

Da pochi giorni è uscito il disco “Il paese è reale”, trainato dal brano sanremese degli Afterhours, contiene anche un tuo inedito. Com’è nata questa iniziativa?
Mi hanno chiamato una settimana prima della consegna del pezzo, parlandomi di questo progetto e pensando di coinvolgermi. Avevo qualche canzone messa lì non finita, e ho finito il testo il giorno dopo. La sera l’abbiamo provata e arrangiata, e poi fatta e registrata. Per i tempi che abbiamo avuto è venuto un ottimo lavoro. Avevo proposto di mettere una canzone del disco, ma non si poteva perché il disco usciva una settimana prima del loro, per cui doveva essere inedito o in uscita dopo tanto. Però secondo me è più adatto per quel tipo di compilation: è un po’ più cattivo, forse è il primo testo autobiografico che scrivo, è molto particolare.

Il tuo calendario live è piuttosto ricco: ci sarà qualche sorpresa nel live?
La novità fondamentale è che siamo in quattro e non sono da solo: facciamo un live abbastanza corposo. Abbiamo fatto il primo concerto l’altra sera: ci sono una ventina di pezzi, tra cui anche il pezzo per gli Afterhours e Verde, la canzone per i Diaframma. Sorprese ce ne sono a livello scenico, stiamo studiando qualche novità – e faccio comunque una parentesi chitarra-voce molto breve. Due dei musicisti – il Signor Solo e Gianluca Gambini – sono quelli che hanno suonato anche nel disco, abbiamo gli stessi strumenti del disco quindi il suono è abbastanza fedele. Al basso c’è Nicola Faimani, che è il cantante dei Flyindolly, un gruppo di Piacenza, molto bravi, e stiamo andando: il primo concerto è andato molto bene, e speriamo di andare molto bene. È molto diverso da com’erano i miei concerti, erano molto più teatro-canzone – per usare una parola molto lontana da me per altezza – ma parlavo molto tra una canzone e l’altra, cosa che non posso fare più di tanto, perché ho dietro tre persone che stanno immobili. C’è qualche trovata scenica da portar sul palco, insomma.



(10/03/2009)

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