ultime notizie

Canzoni&Parole - Festival di musica italiana ...

  di Annalisa Belluco  ‘Canzoni & Parole’ il festival della canzone d’autore italiana organizzato dall’Associazione Musica Italiana Paris che ha esordito nel 2022 è pronto a riaccendere le luci della terza ...

Mimmo Locasciulli

Prima e dopo la cenere

Ci sono artisti promettenti, next big things che si spengono già al secondo disco, e poi tanti saluti. Ci sono cantautori che per qualche tempo hanno qualcosa da dire, poi arriva il business e dice alla Musa della Giovinezza: “Descansate niña, che continuo io”, e così si trascinano stancamente per anni diventando la cover band di sé stessi. Ce ne sono altri, e Mimmo Locasciulli è certamente di questa schiatta, che non smettono di crescere, di cercare, di servire al meglio quell’arte povera ed enorme che è la canzone. Abbiamo incontrato il cantautore abruzzese all’indomani dell’uscita del suo nuovo album, a ben nove anni dal suo ultimo disco di inediti. Diciamolo subito a scanso di equivoci: “Cenere”, questo il titolo, è un gran bel disco e si candida ad essere uno dei migliori che questo anomalo musicista-dottore (o forse viceversa) abbia mai regalato alla musica italiana. E sì che di capolavori la sua discografia non è affatto avara, a cominciare da quell’ “Intorno ai trent’anni” che gli dette il primo grande successo, per arrivare a “Tango dietro l’angolo”, 1991, un lavoro magistrale e innovativo che in pochi all’epoca seppero davvero comprendere.

Cominciamo da questo nuovissimo “Cenere”: tu affermi che è un po’ la summa di tutte le componenti musicali che hai attraversato in più di quarant’anni di carriera.  Messa così sembra quasi che sia l’album della chiusura di un cerchio. Ora, visto che alcuni tuoi colleghi, penso a Fossati e a Guccini, si sono ritirati a vita privata, o quasi, dobbiamo preoccuparci o possiamo tranquillizzare i tuoi fan?
Guarda, il cammino e il risultato sono diversi. A parte Piccoli cambiamenti, che era un po’ una festa di compleanno per i miei 40 anni di carriera, il mio ultimo disco di inediti è del 2009. Quel disco mi aveva lacerato, e così per parecchio tempo non ho scritto nulla, mi chiedevo cosa potessi scrivere di più. Tu poi sai che io non sono un professionista della musica, non faccio vita da ufficio come artista, per cui non è che mi metto lì, leggo, suonicchio, e prima o poi mi esce qualcosa. Io ho pianoforti dappertutto, ma non suono mai, solo per incidere dischi e fare concerti. Poi capita che una volta mi fermo davanti a un pianoforte e mi siedo. Questo è successo a sette anni da Idra. Ho acceso il mio registratore e sono stato 4-5 ore a cazzeggiare, in uno stato di cui non ho reminiscenza. Quello che ho fatto l’ho riascoltato solo dopo una settimana. Da lì ho cominciato a selezionare le cose su cui ho capito che potevo lavorare e ho avviato le registrazioni, con gli arrangiamenti e tutto. Del testo ho solo una vaga idea, alla fine mi metto a cantare senza delle parole scritte,improvviso cose a caso, e poi mi esce il testo.

Per germinazione spontanea, praticamente.
Una specie di maieutica (ride). Per dirti che magari posso fare un altro disco tra sei mesi, o magari non farne più.

Il disco si fa apprezzare anche per la cura degli arrangiamenti, per la ricerca dei suoni. Mi verrebbe un po’ paradossalmente da chiederti: ma in una scena attuale dove di album se ne vendono sempre meno, dove l’ascolto è svilito dallo streaming e dal mordi e fuggi, in cui la musica è sempre più tappeto sonoro, chi te l’ha fatto fare di sobbarcarti tutto questo lavoro? Non ti prende un po’ di scoramento?
Logicamente oggi a pensare che l’ultimo mese ho dormito due ore a notte per fare gli arrangiamenti, suoni, strumenti veri, musicisti adeguati, cercare le parole, ricantare le canzoni tre-quattro volte per poi riprendere la prima versione, perché anche se c’erano delle imperfezioni era quella più emozionante… insomma, faccio tutto questo lavoraccio e poi penso che la maggior parte delle persone, oggi,  tratta la musica come gomma americana da masticare e buttar via, ascoltandola in cuffietta sulla metropolitana. Allora mi viene un po’ la voglia di non fare più dischi. Poi, certo, lo faccio per lo zoccolo duro che ancora mi segue, mi gratifica e ascolta ancora le canzoni in un certo modo.

Senti, un tuo collega, Vecchioni, anni fa cantava “alla tua età scrivere una canzone non sarà più che quello”. Ecco, alla tua età e con 14 album di inediti alle spalle, cosa è per te oggi scrivere una canzone? Cosa cerchi ancora?  
Potrebbe sembrare irriguardoso per le persone che comprano i miei dischi, o vengono ai concerti, ma io scrivo per me. È una specie di autoanalisi, un viaggio. Un pezzo come Il fuggiasco e l’alba, se avessi dovuto seguire le indicazioni di un direttore artistico non l’avrei mai potuto fare. Scrivo per me, anche perché lo faccio in modo criptico, ho un vocabolario dove magari per me l’albero significa la solitudine, ma tu senti la canzone e per te significa altro, quindi alla fine scrivo per un bisogno che ho di confrontarmi con le mie emozioni.

“Cenere” è un disco che mi è subito piaciuto, al momento mi sembra uno dei migliori che hai inciso, perché dentro c’è tutto il tuo viaggio artistico.
Beh, io ho inciso dischi in cui erano presenti diversi generi: pop, folk, elettronica, blues, rock…, ma ogni disco era in qualche modo connotato da uno di questi. Qui invece, dopo nove anni che non scrivevo, mi sono detto di non mettere filtri: se mi viene una canzone con l’incipit che ricorda i Beatles, o una con il moog o il sitar, perché no? Ho lasciato che tutto mi attraversasse in totale libertà.

Però sono presenti anche dei suoni diversi, per esempio Cenere, la title track, ha un suo sapore di psichedelia west coast, o Cinque sei sette otto con la tastiera che svolazza in puro stile disco-music: mi sembrano delle novità nel tuo repertorio, o mi sbaglio?
Sì, però nel secondo caso a cui accenni parlo di un mezzo sfigato che vorrebbe andare alla scuola di ballo con la fidanzata e quindi è chiaro il riferimento a quel tipo di personaggio alla John Travolta, c’è anche una chitarra che è pari pari il riff della disco-music anni ’70, sono citazioni. Però altrove ci sono le mandole, c’è il charango, strumenti etnici, ma anche strumenti anni ’70 come il moog e il Roland, cui però ho aggiunto loop un po’ più moderni, che sono merito di mio figlio Matteo, il co-produttore del disco (insieme nella foto in alto). È un disco di apertura di generi, stili, mondi. Anche la collaborazione con Pacifico nasce così. Avevo una musica per un pezzo, che poi sarebbe diventato Amnesia di un momento, che era in direzione Mink DeVille, e Pacifico con il suo testo ha centrato perfettamente l’atmosfera. Il confronto ti arricchisce.

Ecco, appunto, c’è un pezzo, La solitudine dell’artista, che è musicalmente un brano tipicamente tuo, in cui descrivi l’isolamento che vive l’artista quando è di fronte alla propria arte, ma poi questa solitudine per quanto ti riguarda è stemperata dai tanti amici musicisti con cui collabori anche in questo lavoro, da Ruggeri (qui in una foto di qualche 'decennio' fa...) a Pacifico, da Büne Huber, a Fabrizio Bosso e Awa Ly: insomma sembra che in realtà tu poi preferisca la compagnia!
Quel pezzo è nato quando mi è ricapitata tra le mani una poesia di Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra…”, ma quella è la solitudine esistenziale. La mia solitudine è invece quella di un artista, è una solitudine contemplativa, enfatica, di sublimazione. Sei solo nell’universo, ma in senso di conquista, è tutto tuo.

A proposito, collegandomi a quanto hai appena detto, Cenere ha un testo di grande intensità, o meglio densità. Colpisce quell’ “Ecco” iniziale, poi continuamente ripetuto, in cui nomini le cose: mi ha fatto venire in mente quei poeti che hanno avuto bisogno di “indicare”, dare sostanza alle cose. Penso, probabilmente in modo arbitrario, all’Infinito di Leopardi, ma anche a Edoardo Sanguineti. Insomma, di te sappiamo benissimo quali sono i tuoi amori musicali, tra l’altro esplicitati in questo album, mi pare però che non si sia detto molto dei tuoi riferimenti, letterari: puoi aiutarci a fare luce su questo aspetto?
Guarda se n’è parlato poco anche perché io sono molto limitato (ride). Al liceo, e poi anche dopo, ho letto molta letteratura francese, soprattutto Proust, anche se il mio autore preferito in assoluto è Stendhal, e di lui specialmente ‘La certosa di Parma’ e ‘Il Rosso e il nero’. Ho scritto un disco dedicato a Vanina Vanini, un personaggio appunto delle ‘Cronache italiane’ di Stendhal, e anche una canzone su di lei. Non leggo moltissimo i viventi, anche perché devo colmare delle lacune precedenti. L’anno scorso, per farti capire, ho riletto ‘Notturno’ di D’Annunzio. Dei contemporanei però ho letto recentemente il libro della mia conterranea, e bravissima, Donatella di Pietrantonio, ‘L’Arminuta’. Tra l’altro in questo libro, il personaggio della professoressa è proprio mia madre, perché è stata una sua insegnante. La Pietrantonio (qui nella foto) mi ha contattato e mi ha detto “Tua madre mi ha cambiato la vita”. In effetti era una di quelle insegnanti che se intuivano il talento lo incoraggiavano in tutti i modi, tanto che è andata a casa dei genitori della Di Pietrantonio e ha detto alla madre: “Tu venditi casa, ìmpegnati quello che vuoi, ma questa ragazza la devi far studiare”.

Sempre restando sul tema collaborazioni, a questo giro di giostra i tuoi aficionados noteranno sicuramente l’assenza del tuo compare Greg Cohen, come mai?
Per non disturbarlo (ride). Ero stato a trovarlo a Berlino, volevo coinvolgerlo solo in un paio di pezzi, Columbus Avenue e Il fuggiasco e l’alba, su cui aveva un po’ già messo le mani, però poi stavo lavorando in contemporanea anche al mio libro (‘Come una macchina volante’) che è uscito ad aprile, e quando l’editore mi ha messo il sale sulla coda, ho dovuto momentaneamente lasciare indietro il disco, interromperlo, e poi mi sono ritrovato a riprenderlo con fatica. Ho dovuto ricominciare da capo a riordinare le idee, e per rispettare i tempi di pubblicazione dell’album ho dovuto lavorare come un pazzo sicché non avevo tempo di andare a Berlino da Greg.

Restando in zona, tu sei stato il primo a veicolare in Italia il suono del Tom Waits degli anni ’80 (qui sotto in una foto del periodo), quello di Swordfishtrombones, per capirsi, ospitando oltre a Greg Cohen anche la chitarra inconfondibile di Marc Ribot, e questo già nel ’91 in “Tango dietro l’angolo”, parecchio prima di Vinicio Capossela che poi con Il ballo di San Vito di 5 anni più tardi sarà visto quasi come un modello, un capostipite di un certo suono. Insomma, sei stato un innovatore, ma forse pochi se ne sono accorti: è una cosa che pesa o è più la soddisfazione?
Senti, intanto se vuoi ti racconto questo aneddoto: tanti anni fa un famoso critico e studioso mi chiamò per chiedermi di accompagnarlo nella presentazione di un suo libro sulla storia della canzone italiana, dicendomi che per lui sarebbe stato un onore se avessi cantato qualche pezzo. Io gli riposi che dovevo partire per la settimana bianca, ma poi alla fine tanto insistette che mi lasciai convincere. Arrivai, suonai qualche pezzo, poi mi dette il suo libro con una dedica “A Mimmo, pietra miliare della canzone!”. Più tardi, in albergo, mi misi a sfogliare il suo libro cercando il punto in cui si parlava di me. C’erano quattro pagine dedicate a una cantante di cui poi non si seppe più nulla, ma io non c’ero (ride). Sai, ho la fortuna di avere una fan che da tempo porta avanti un blog a me dedicato e che ha scritto che quando mi citano lo fanno spesso a sproposito, tirando fuori la storia che sono stato il medico di Ciampi, cosa non vera (perdonaci Mimmo: anche noi ne eravamo convinti… NDR). Ma più in generale ho avvertito un po’ di diffidenza. Pensa che quando ebbi il grande successo di “Intorno ai trent’anni” chiesi a Vincenzo Mollica come mai il TG1 non mi nominasse mai, e lui mi disse che c’era un direttore che rispondeva: “Locasciulli? Quello o fa il medico o fa il cantante”.
Però vedi, ci sorrido, perché sono passati 43 anni e io sto ancora qui a fare dischi. Comunque, tornando alla tua domanda, ti devo dire che sono contento che quei suoni, quel modo, siano stati adottati da un grandissimo artista: Vinicio ha tutta la mia stima e il mio affetto, e poi lui ha aggiunto anche altre cose: la teatralità, il mondo popolare, quello vero… insomma è un grande. Se c’è un rammarico, è che ero andato a fare il disco a New York con un entusiasmo pazzesco, anche da parte della Polygram, che era all’epoca la mia nuova casa discografica. Mi misero a disposizione un budget importante, anche per fare un documentario sulla lavorazione dell’album, cui partecipavano, appunto, i musicisti di Tom Waits. Quando tornai in Italia per fare il missaggio, invitai quelli della casa discografica a venire ad ascoltare, ma non si presentò mai nessuno. Quando poi finii l’album e glielo feci ascoltare, sentii dire: “Ma le chitarre sono stonate! Chi è questo che suona?”. Era Marc Ribot (ride). E poi: “Ma questi archi, come sono arrangiati? Oddìo!”. Per cui la promozione del disco fu di una squallida routine, quasi nessuno ha parlato di questi fantastici musicisti. Quando poi anni dopo leggo sui giornali, a titoli cubitali: “Marc Ribot nel disco di Vinicio Capossela!”, io me la sono presa con i miei discografici che non hanno capito quello che avevo fatto. Vinicio invece ha avuto la fortuna di essere prodotto da Renzo Fantini, un illuminato, e una casa discografica che ha capito. Io invece ho avuto una casa discografica che non ha valorizzato il lavoro, anzi forse l’hanno proprio ostacolato. Poi vabbè, siccome io non dovevo vivere della mia musica, ero contento di averlo fatto, e sono andato avanti per la mia strada.(nella foto in alto, da sinistra, Matteo Locasciulli, Greg Cohen, Jey Baron, Locasciulli e sulla destra Marc Ribot)

Senti, per finire questa nostra chiacchierata, di cui ti ringraziamo moltissimo, e ricollegandoci a quello di cui abbiamo appena parlato, mi piacerebbe sapere come valuti oggi, a distanza di anni, la tua personale esperienza di discografico che, ricordiamo, è cominciata nel ’94 quando fondasti la ‘Hobo’ e anche se ci puoi regalare un ricordo di due artisti che hai prodotto con quell’etichetta, Claudio Lolli e Goran Kuzminac, che purtroppo sono entrambi scomparsi questa estate.
Io ho solo momenti belli da ricordare nella mia vita da produttore: c’era anche lo sconosciuto, ma bravissimo, Stefano Delacroix, (qui nella foto) di cui ho prodotto due dischi, e poi, certo, Goran… Fragole e pugnali è stato un disco meraviglioso, c’era Le ragazze di domani che ogni volta che la sento ancora mi commuove. Con Claudio è stata un’esperienza umana molto bella. Ero, e sono tuttora, affascinato dalla sua personalità, che rimane nei suoi dischi. Un’altra produzione che ho fatto con la mia etichetta è stata quella di Alessandro Haber, con cui abbiamo inciso due dischi. Insomma, quattro situazioni: un cantautore rock, un fingerpickerista-cantautore, un cantautore del Movimento, e un attore di talento e di follia smisurati… ecco questi quattro mi hanno gratificato dal punto di vista dell’amicizia e del rispetto umano, ma anche, e soprattutto, dello sforzo, che ho fatto con molto piacere, di entrare nel loro mondo, nelle loro sensibilità.

 

Le foto di Locasciulli più recenti sono (quasi) tutte di Mariangela Ottaviano, mentre le restanti sono tratte dal profilo facebook o dal sito dell’artista.

Share |

0 commenti


Iscriviti al sito o accedi per inserire un commento