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Andrea Chimenti

Passeggiando tra le arti

Siamo andati a trovare Andrea Chimenti in occasione della tappa romana del suo tour di promozione dell’ultimo disco Chimenti Danza Silenda. È venuto fuori il ritratto di un artista completamente trasversale o, meglio, che ama “misurare” la forma canzone con altri codici artistici, come la poesia, l’immagine, il teatro o la danza. Coerentemente, non ama definirsi un cantautore – alla faccia di chi troppo spesso sfrutta l’alone artistico che la parola evoca – e riconosce nel rock anglosassone la sua vera fonte di ispirazione stilistica.


Intanto parliamo di questo spettacolo che stai portando in giro. In che consiste? Che dimensione adoperate?
Questo spettacolo è in concomitanza con un’uscita di pochi mesi fa che è “Chimenti Danza Silenda”: un cofanetto che racchiude un dvd, dove  la Compagnia di Danza Silenda, una compagnia di danza contemporanea francese, interagisce con le mie canzoni. Allegato c’è un cd che è una sorta di mia compilation e ripercorre la mia produzione, dai Moda fino ad oggi; cosa che non ho mai fatto. Per promuovere questo nuovo lavoro siamo partiti con dei concerti in una formazione particolare. Siamo in due: io che suono pianoforte e chitarra e Stefano Cerisoli alla chitarra; con noi c’è uno strumento particolare che è una macchina strana e si chiama “Machine des ombres”, una nostra invenzione, in cui si creano delle ombre cinesi che formano delle micro storie che accompagnano ogni canzone.

Ecco, proprio questo crogiolo di arti credo sia la tua particolarità. Secondo me la definizione classica di “cantautore” ti va stretta e, in questo senso, mi piacerebbe ripercorrere la tua carriera artistica, come hai fatto nella compilation e fai negli spettacoli dal vivo. A te piace “misurare” la forma canzone, vedere dove può arrivare nel rapporto con le altre arti. Anche nei tuoi brani, poi, tu sei molto attento alle atmosfere che sottendono la canzone. Non sei il classico menestrello alla De André o alla Guccini, per intenderci.
Sì, ecco, per me essere definito “cantautore” può anche andare bene, l’unica cosa è che il termine rimanda inevitabilmente a una serie di artisti, soprattutto degli anni settanta, grandissimi, ma della cui scuola io non faccio parte. Sono cresciuto in un’altra dimensione, ascoltando musica inglese, privilegiando tanto l’aspetto musicale. Questo è stato l’inizio e come tutti i gruppi all’inizio con i Moda avevamo provato a cantare in inglese, che è una cosa tipica. Ma mi sono reso conto subito, prima di fare uscire qualsiasi cosa, che non potevo usare quella lingua, perché c’era una scelta da fare: o la strada dell’estetica o la strada dei contenuti. Se uno sceglie il contenuto, inevitabilmente canta nella propria lingua, perché con essa pensi e sogni. Ecco, io all’inizio ho avuto anche difficoltà, perché non capivo come potevo fare per mettere l’italiano in quella musica rock che ho sempre amato. Però non potevo fare altrimenti, perché mi sarei allontanato completamente dal mio modo di amare e di vedere l’arte della canzone. Così ho iniziato con i Moda e questa cosa si è sviluppata, ovviamente, quando mi sono trovato da solo. Quindi io credo, sì, di poter essere definito una sorta di cantautore, ma che proviene dal rock anglosassone, perché a quella musica sono legato.

Proseguendo in questo viaggio tra le arti, parliamo del rapporto con la poesia e del tuo album del 2002, “Il porto sepolto”, in cui metti in musica delle poesie di Ungaretti. Ho notato che hai scelto il primo Ungaretti, quello più simbolista ed essenziale. Lo hai fatto perché ti permetteva maggiore possibilità di movimento musicale? Spesso nella lettura di quelle poesie ad ogni parola si aprono una serie di mondi e possibilità.
L’approccio è stato molto istintivo, com’è quello mio, spesso, verso le cose che faccio. Direi che ci sono degli autori che mi colpiscono particolarmente e uno di questi è proprio Ungaretti. Il tutto mi è stato commissionato da un attore, Franco Di Francescantonio – grande attore che purtroppo oggi non c’è più – il quale mi ha chiesto di musicare una poesia. Così sono andato a cercare e la scelta è caduta su Ungaretti. La prima è stata Vanità e il procedimento è stato quello di mettere la poesia sul pianoforte, come fosse uno spartito, e tentare di cantare queste parole, assecondando la mia spontaneità. Devo dire che la sensazione che ho incoraggiato maggiormente in me è stata quella di cercare il canto che già c’era in quelle parole. Ho cercato di tirarlo fuori, grattare la terra e riesumare un canto dimenticato dentro quei versi. In questo senso – come dicevi tu – Ungaretti in poche parole crea dei macigni; questo mi ha dettato l’esigenza di creare una musica scarna, semplice: piano, chitarra e un trio d’archi, proprio per non aggravare una parola già molto corposa.

Un’altra arte con la quale hai misurato la canzone è il teatro. Parliamo del tuo lavoro del 1998, il “Cantico dei cantici”, un disco che è nato per la voce recitante di Anita Laurenzi, con te al pianoforte, dove hai scritto musiche direttamente sul testo biblico. Mi interessa sapere come ti sei posto di fronte al fatto che certe musiche andassero a teatro, il che presuppone un’arte in cui il segno dell’interpretazione è fondamentale – come e più che in canzone tout court – dove la corporeità e la performance sono insostituibili.
Lì si trattava di fare il lavoro che fa chi compie una colonna sonora in un film, con la differenza che il rapporto è diretto tra la musica che stai componendo e la parola, la quale suscita delle immagini. Non è solo un lavoro di supporto, perché c’è la difficoltà di riuscire a interagire con la parola e non semplicemente – come spesso si  fa – fare il sottofondo che crea l’atmosfera. Io volevo davvero compenetrare la parola. Per farti un esempio: a un certo punto il verso termina e la musica continua cercando di perpetrare quello stato d’animo.

Arriviamo così al tuo ultimo lavoro, la raccolta e il dvd. Qui la canzone si fa immagine. Come cambia la percezione stessa da parte di chi fruisce? In particolare: la danza che ruolo ha? Credi che possa completare il messaggio della canzone?
Io credo che la danza interpreti la canzone, creando una nuova energia che è fatta da due sistemi: la canzone e il corpo dell’uomo. Ovviamente, quando ho scritto i brani non avrei mai pensato che potessero essere danzati. Vederli danzati ha rappresentato una emozione grandissima, perché vedi che un corpo interpreta quei suoni in modo assolutamente personale; è stata una esperienza unica e spero di poter continuare a fare cose simili. Sono stato in Francia quest’estate per una colonna sonora a un film dove i protagonisti sono due danzatori. Pensa che la colonna sonora doveva nascere durante le riprese del film, quindi è stata una esperienza particolare, sperimentale e, credo, molto riuscita. Pensandoci, problemi tecnici a parte, credo anzi che sia la cosa più ovvia: finite le riprese era finita anche la musica.

Pensi in futuro di accostarti anche ad altre arti? Che so: la fotografia, la pittura, visto che il tuo modo di usare la forma canzone è molto competente e riesce ad essere funzionale ad altre espressioni, non ultime le arti che lavorano con le immagini.
Sì, beh, questo probabilmente deriva dal fatto che ho studiato cinema d’animazione a Urbino e il mio primo lavoro è stato fare cartoni animati. Io, nello stesso scrivere canzoni, parto sempre per immagini. Quando scrivo una canzone mi devo fare un film nella testa, forse perché un tempo disegnavo. Quindi l’immagine per me è sempre importante e il discorso di poter collegare la mia canzone ad altre forme – che siano la scultura o la pittura, il cinema, la danza – è una cosa molto forte  che mi stimola e mi suggerisce idee.

Arriviamo alla domanda più triste e terminiamo, con essa, l’intervista: la situazione discografica. Il tuo nome oramai è conosciuto nell’ambiente e hai una esperienza che ti permette di fare bilanci. Come vedi le cose? Sia sotto il punto di vista di produzione e distribuzione di musica che dei live. Si può campare di musica?
Si fa molta fatica. Ci si deve accontentare. Lo dico pur sapendo di essere anche più fortunato di tanti altri. Credo che alla base ci sia una sola cosa: in Italia fare il musicista non è considerato un mestiere. Alla fine sono arrivato a questa conclusione. Non essendo considerato un mestiere, il musicista è tollerato. Può cantare, può suonare e già si diverte; quindi, “questo gli basti”. L’ho visto soprattutto andando all’estero. Come ultimo esempio posso portare proprio quest’esperienza francese, dove c’è un altro universo, un supporto dello Stato, un aiuto veramente forte.

C’è anche un pubblico più attento? Lo vediamo con i nostri Gianmaria Testa, Roberto Sironi…
Esatto, c’è proprio un altro tipo di attenzione. Non ci sono giovani tanto rincoglioniti dai mass media come da noi e non li vedi girare per le strade con i vestitini all’ultima moda. C’è un’altra atmosfera. Solo da noi c’è il proliferare di questo consumismo spietato.

Vien voglia di andare ad abitare altrove; ogni a me viene…
Non voglio fare la parte di chi da italiano critica il proprio Paese, però, effettivamente, noi musicisti non veniamo considerati, e se iniziamo a parlare di cose come l’iva sui cd arriviamo a domattina e io non faccio il concerto stasera!




(24/02/2009)

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