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Il Geometra Mangoni

"La mia rivolta sommessa e silenziosa"

Non servono storie eccezionali per raccontare la vita attraverso le canzoni, a volte è sufficiente usare la “lente” dell'introspezione e indugiare sull'essenziale, sulla quotidianità. Questa, a ben guardare, potrebbe essere la sintesi del nostro incontro con Il Geometra Mangoni, l'artista toscano vincitore dell'1M Next2016, contest dedicato alle nuove proposte del concerto del primo maggio a Roma. Nel 2015 usciva il suo album di esordio L'anticiclone delle Azzorre (Qui Base Luna), promosso a pieni voti da buona parte della critica, e Maurizio Mangoni (questo il suo nome all'anagrafe) raccoglieva le lodi “in sordina”. D'altronde è così che è entrato in scena, senza fare troppo rumore, raccontando quella normalità che ci fa storcere un po' il naso ma che - come dice “Il Geometra”- può nascondere “una rivolta sommessa e silenziosa”. Ne abbiamo parlato insieme nel corso di una piacevole chiacchierata, durante la quale ci siamo addentrati nel mondo sfaccettato di un artista che, sotto molti aspetti, è decisamente fuori dal “normale”.

Maurizio Mangoni, in arte “Il Geometra”. Come nasce questo progetto e perché scegliere un nome palesemente in contrasto con l’idea di artista ?
Il progetto “Il Geometra Mangoni” è nato ufficialmente nel 2011. Precedentemente ho avuto altre esperienze musicali, suonando e cantando in diversi gruppi. Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di scoprire come sarebbero state le canzoni pensate e arrangiate direttamente da me. Fra marzo e agosto del 2011 preparai alcuni brani e partecipai al Rock Contest di Controradio. Il riscontro fu sorprendente: Premio Ernesto De Pascale per la migliore canzone in italiano e terzo posto generale. Da lì in poi, in qualche modo, si sono aperti tutti i contatti che mi hanno portato a questo punto. Non direi che il nome è in contrasto con la proposta artistica, anche se lo può sembrare: in primo luogo, “Il Geometra Mangoni” sono io nella vita, e scegliendo questo nome ho voluto espormi in prima persona. Poi le storie che racconto sono, in definitiva, storie di vita “normali”, in cui però tento di incastrare una rivolta sommessa e silenziosa: in questo senso è necessaria una sorta di competenza “geometrica”, per collocare i diversi elementi in modo che stiano in piedi.

Nel 2015 pubblichi “L’Anticiclone delle Azzorre”, disco di esordio che entra nelle grazie della critica per alcune peculiarità. In primis, la capacità di accostare sonorità che attingono all’elettronica indie di matrice nord-europea da una parte, e testi più legati alla tradizione dei cantautori italiani dall’altra. Da dove viene questo melting pot di ispirazioni musicali?
Non è una cosa studiata per soddisfare un ipotetico ascoltatore o un critico ideale. Quando ho lavorato alle canzoni dell’album ho seguito ciò che sentivo: il risultato è stato quello che ne è uscito. Semplicemente, mi piace l’elettronica, ancora di più quando è mescolata a sonorità più classiche: e, in questo, molti artisti del nord Europa sono maestri. Dall’altro lato, ho una certa “voglia di melodia” e non ho mai nascosto la mia passione per tutti quei cantautori italiani che hanno animato la scena degli anni Settanta e che indubbiamente mi hanno influenzato.

“L’Anticiclone delle Azzorre” è un disco giocato sulle contrapposizioni, sull’alternanza degli opposti: l’estate e l’inverno, l’oscurità e la luce, il sogno e la realtà, il passato e il futuro. Sembri oscillare costantemente tra due mondi…
Sono canzoni che, per i temi trattati, si collocano dentro le giornate che viviamo: non mi sembra di raccontare cose “straordinarie”, mi concentro piuttosto sulle vicende minime. E nei minuti delle giornate ci sono gli alti e i bassi che costantemente ci troviamo di fronte. Il sogno non sarebbe mai un sogno senza una mattina, senza un risveglio. Non è tanto o solo una contrapposizione tra due mondi: è la presa di coscienza che ci sono tutti questi elementi. L’“Anticiclone delle Azzorre” è un disco in cui parlo di come ho vissuto e ho visto certe cose. Ma già in questo periodo mi rendo conto che mi piacerebbe avere anche uno sguardo meno introspettivo e più rivolto alle vite parallele di tante persone che vedo intorno a me.

Questo dualismo si ritrova anche nel contrasto tra un senso di solitudine che pervade molti dei tuoi testi e al tempo stesso la presenza dell’amore vissuto nella sua visceralità (sguardi, respiri, abbracci). Cosa pensi della comunicazione nell’era di internet? Pensi che abbia agevolato o incrinato l’autenticità delle relazioni umane?
Non ho un’idea drastica, in bene o in male, sul peso degli strumenti tecnologici moderni in rapporto alla comunicazione. Nel tempo le condizioni cambiano, le modalità si trasformano e quando sei nel mezzo della mutazione non riesci ad avere una precisa consapevolezza di tutte le componenti che poi costituiscono il quadro generale. Soprattutto, dire “Era meglio prima!” o “Era peggio prima!” è una di quelle estreme semplificazioni che non aggiungono nulla. Se pensi a tante cose che puoi fare in senso “sociale” con i media attuali, ci sono aspetti sicuramente belli e positivi: mantenere delle amicizie a distanza, restare in contatto, scambiarsi idee, riflessioni, materiali. Ma alla base di questo deve esserci, appunto, la parte “viscerale” di cui parli. Ci deve essere un rapporto reale, e qui penso che sia davvero necessaria un'educazione sentimentale, specie per i giovanissimi che non hanno conosciuto il mondo prima dei social, quando da bambino ti trovavi in piazzetta e per cercare il tuo amico suonavi il citofono. E non sono passati secoli.
I problemi di comunicazione derivano da un'eccessiva velocità di contatto che spesso porta anche a una pari velocità di esaurimento. Ma del resto, nella progettazione industriale, si parla di “obsolescenza programmata”: tanti oggetti sono progettati per durare poco ed essere sostituiti e comprati nuovi, tutto viene consumato nel giro di poco e anche i rapporti fra persone non sono esclusi. Ma questa, ormai da tanti anni, non è più una novità: ci siamo dentro, non ci va bene, ma poi alla fine ci va bene lo stesso.

Altro aspetto significativo di quest’album è la presenza di una temporalità “sospesa”, rafforzata dall’aspetto prettamente musicale, che conferisce alle canzoni un’atmosfera piuttosto rarefatta. Ciò rispecchia il tuo modo di comporre? Ovvero, l’idea di “fermare” un istante nella mente per poi dilatarlo?
Sono una di quelle persone che spesso dipinge il ricordo con colori pastello. Come se fosse una favola. Mi sono accorto che il tempo in qualche modo è un falegname: lima certi spigoli, leviga le asperità, elimina le schegge di legno. Di conseguenza, mi capita di pensare che certe cose vissute in passato non avranno più modo di essere di nuovo così belle; ma dobbiamo essere consapevoli che il nostro tempo è quello che stiamo vivendo, indipendentemente dall’età. Dovremmo abolire certe frasi del tipo “Ai miei tempi...”. Va anche detto che un po’ tutta la nostra società è “schiacciata” in un concetto di “eterna gioventù”: quando poi passano gli anni, diventa quasi scontato soffrire di ciò che si è perso nel tempo.

I testi delle tue canzoni sono minimali ma incisivi, intimisti e intellettualmente onesti. Considerata l’ampollosità e la retorica artefatta della maggior parte del pop mainstream italiano, credi che questo aspetto possa essere un deterrente o un punto di forza?
Questo è un argomento complesso e davvero enorme. Anzitutto grazie per la definizione di “intellettualmente onesti”, perché questo è un complimento che apprezzo moltissimo: nei testi provo a dire quello che sento e che penso, senza finzioni o pose. E siccome sarei disonesto se non provassi almeno a dare una risposta, provo a dire qualcosa. Riguardo ai testi, secondo me non c’è una logica precisa. Se fai riferimento al pop mainstream italiano di questi ultimi anni, per quel poco che posso ascoltare occasionalmente, onestamente è vero che c’è enfasi e retorica, non solo nei testi ma anche nell’interpretazione vocale. Però non farei una distinzione assoluta tra pop mainstream e, magari, cantautori “indipendenti”, perché anche in canzoni di artisti più di “nicchia” si trovano delle frasi -chiamiamole “spot”- che alla fine non hanno questo grande valore espressivo, ma che fanno la differenza del brano e regalano all’artista questo alone di genialità poetica.
Poi se pensi a certi pezzi pop mainstream, magari di anni fa, ti rendi conto che ci sono stati brani di grandissimo successo popolare che avevano testi incredibilmente strutturati e profondi. Pensa a “Come è profondo il mare” di Lucio Dalla…
A livello personale seguo queste indicazioni: parlo di cose che sento e che capisco; non ricerco “effetti speciali”; ascolto critiche e commenti e sulla base di essi cerco di migliorare, ma senza snaturarmi. Insomma, se mi dicessero di “fare il verso” a qualcuno, magari anche bravissimo e che mi piace tanto, non lo farei semplicemente perché poi si capirebbe che la cosa è “finta”. Non funzionerebbe.

Una delle caratteristiche del tuo progetto è il cosiddetto “Live aumentato”, che utilizza sensori di spazialità  e strumenti in grado di interagire con la performance, trasformando l’artista in strumento. Di che si tratta?
Grazie a Tommaso Rosati - uno dei musicisti che mi accompagna nel live insieme a Fabio Mazzei alla batteria - posso “indossare” degli strumenti costruiti da lui. Questi “effetti” sono in grado di modulare il suono in tempo reale: attraverso il movimento del corpo posso sviluppare delle situazioni sonore che applicate alla canzone creano gli arrangiamenti. 

L’ennesima “dicotomia” la si ritrova nella velata malinconia che pervade il disco, in contrasto con una personalità palesemente positiva e solare. È una sorta di “sindrome del comico” rovesciata?
Guarda, ora che mi ci fai pensare, questa storia della “sindrome del comico” alla rovescia per i musicisti può essere vera: in effetti mi vengono in mente diversi personaggi che magari fanno pezzi malinconici, musica lunare con testi profondi, ma che nella vita sono solari, scherzano, sono molto empatici e disponibili. Diciamo che sono una persona a cui piace scherzare, che apprezza l’ironia e la compagnia. Ma ciò non mi impedisce di vedere anche gli aspetti cupi o dolorosi che ci sono nella vita, e questo viene fuori specialmente nei momenti in cui vieni sopraffatto dalla stanchezza e dalla difficoltà con cui ti devi confrontare. In questo disco ho cercato di andare a raccontare le dinamiche quotidiane, per come le vivo io, sia quelle che ci affliggono sia i momenti che ci slanciano verso l’alto. Un pezzo come È tutto qui alla fine parla proprio di questo: parla di difficoltà quotidiane, dice cose pesanti, ma si apre quasi con un senso di leggerezza. Anche dai social media, a me sembra di vedere un mondo in cui in tanti vogliono apparire fighi, brillanti, perennemente in vacanza, sempre allegri. Ma questa è una realtà inventata: nel disco ho provato a raccontare quello che c’è di reale nelle ore di tutti i giorni, dove c’è la situazione memorabile in cui tutto è perfetto, ma c’è anche la fatica e la difficoltà.

Nel brano “Fra giorni e poesia”, quarta traccia dell’album, dici: “Accompagnati dal senso di disillusione che ci rende vivi e partecipi di questo mondo” ma non è piuttosto l’illusione a tenerci in vita?
In apparenza sì, l’illusione sembra quell’elemento che ci spinge ad andare avanti. La retorica del “sogno” fa parte della storia delle nazioni, dei popoli, delle imprese sportive, delle aziende. Però, anche se può sembrare strano, la disillusione secondo me è un passo fondamentale verso la felicità, nel momento in cui ti svegli dal sogno, abbandoni l’illusione e fai i conti con la realtà. In quel momento capisci che stare dentro al mondo, essere vivi, partecipi di quello che c’è intorno, reagire e confrontarsi, immergersi nello scorrere del tempo, è più importante del sogno, perché ti permette almeno di tentare di costruire i tuoi spazi di felicità. Poi le cose non sono mai come le hai sognate. Sogni qualcosa, la realizzi e scopri che non era affatto come l’avevi sognata: però, anche con la disillusione, quell'esperienza è vera e viva, ti fa crescere e ti aiuta a comprendere che cosa potrebbe essere la felicità. 

Quale canzone del tuo disco rappresenta meglio questo momento della tua vita?
L’Anticiclone delle Azzorre è un disco che appartiene a un periodo della mia vita per certi versi un po’ passato, anche se non è distante. Un meccanismo che credo comune a tanti musicisti è quello di impegnarsi tanto sulla composizione di un pezzo mettendoci molto “sentimento”, ma appena finisci la canzone quel pensiero dentro di te è già vecchio e vorresti andare avanti. Se fra tutte le canzoni ne dovessi scegliere proprio una, per quello che racconta, per quello che dice, sarebbe Organetto arancione. Penso che il tempo non cambierà l’intenzione e il pensiero di quella canzone. 

Quali sono i tuoi progetti per l’immediato futuro? Prossimi live?
Nel periodo invernale ci sono diversi concerti in programma e potete trovare le date sulla nostra pagina Facebook (https://www.facebook.com/ilgeometramangoni/). Poi, sto scrivendo nuove canzoni in cui, pur mantenendo il mio approccio e il mio stile, cerco di variare un po’ lo sguardo, orientandolo maggiormente verso l’esterno. Ma onestamente non so che piega prenderà la scrittura.
Spero di arrivare ad avere materiale per pubblicare un secondo album in un futuro prossimo, senza metterci una vita, ma senza farmi venire l’ansia.

La terza foto con sfondo nero è di Giacomo Triglia

 

 

 

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