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Giovanni Canitano

Il talento è nulla senza l'istinto

Giovanni Canitano prima di essere un fotografo di sensibilità e gusto estetico da primato, è un campione di umanità ed intelligenza emotiva. Quando lo incroci, con il suo fare ieratico e compassato, ti trasmette la serenità dei suoi tanti anni on the road, una persona che ti mette subito a tuo agio, capace sempre di raccontare una storia che affascina. E non sono stati solo sogni di rock and roll, dal momento che il suo obiettivo è riuscito ad esaltare personaggi così diversi come Gianni Agnelli, Nastassja Kinski, Bjorn Borg, Franco Battiato, in una moltitudine sparsa che ha legato il suo nome in particolar modo all’epopea del rock americano, inseguito in ogni dove. Non è un caso infatti che Giovanni stia preparando da qualche tempo quello che legittimamente ritiene essere il suo progetto più ambizioso, ovvero un libro antologico su Bruce Springsteen, non per niente ritenuto da Claudio Trotta, l'appassionato promoter di Barley Arts che ne organizza i concerti italiani dal 1981, il più grande live performer di tutti i tempi.
Incontriamo Canitano in una giornata luminosa che inonda il suo studio, piazzato in una zona tranquilla della via Tiburtina a Roma, e il suo racconto diventa ricordo di artisti, luoghi, situazioni che attraversano i decenni e in un attimo capisci che quei racconti diventano Storia. 

 

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Partiamo da una riflessione dolceamara e cioè che anche per la fotografia c’è stato un tempo romantico, dove questo splendido mestiere aveva tutt’altro significato…
Fare il fotografo è una ‘malattia’, nel senso che quando ti prende il virus non lo molli più, per cui sentirai sempre la necessità di fare foto. Purtroppo devo dire che, nonostante il suo forte potere attrattivo, la figura del fotografo applicata alla musica e nello specifico al genere rock, si è praticamente estinta; oggi ti puoi ritrovare a scattare al fianco di bancari in libera uscita o figli di papà che non hanno niente da tentare per farsi largo nella vita, in quanto possono vivere di rendita. Un disastro assoluto che purtroppo è dovuto a una molteplicità di fattori, innanzitutto la svalutazione inflitta alle foto. Prendi Instagram per esempio, dove ognuno può caricare un migliaio di scatti al giorno mentre è venuto meno il ruolo di chi le foto le deve pensare e poi produrre. Poi sai, oggi sono tutti fotografi: pensa che quando io andavo a scuola e siamo nel pieno fervore degli anni ‘70, all’interno di una comunità di 500\1000 persone quelli che facevano le foto erano - per una serie di motivi che riguardavano anche la capacità di saper destreggiarsi con l’attrezzatura, i rullini, lo sviluppo etc - forse tre, ma potrei sbagliarmi per eccesso. Oggi invece le proporzioni si sono invertite: su mille adesso quelli che non fanno foto sono sempre tre e non sono neanche quegli stessi di prima, mentre tutti gli altri le fanno. Tutto questo crea una scena diversa, ovvero satura di foto. Che poi mi piacerebbe anche sapere dove andranno a finire e chi le vedrà, perchè sono oggettivamente troppe quelle che circolano.

Ovviamente un fotografo professionista non userebbe mai il telefonino...
Guarda che se mi dai il tuo, una foto te la scatto pure, ma è proprio l’impostazione generale ad essere del tutto diversa. Chi lo fa di mestiere, spesso riceve un incarico ed esegue una commissione, per cui un ragazzo che ha un buon occhio e che scatta con il telefonino, non sarebbe in grado dal punto di vista concettuale di arrivare allo stesso risultato, questo nonostante le sue evoluzioni avanguardistiche. Quindi è proprio la prospettiva che cambia. Non puoi andare al finale di Roland Garros con il telefonino, ma ci devi andare con il Canon 800, che sono due mondi diversi, perchè stai mirando ad un certo tipo di risultato che con il telefonino ovviamente non potresti mai raggiungere. Mi passano sotto gli occhi tantissime foto belle, ma è una cosa quasi opposta rispetto a quando ti chiamano per raggiungere un obiettivo dichiarato. Io seguo ancora il mio istinto, nel senso che se non trovo qualcuno da fotografare ci sto male. Guadagnare e guadagnarci da vivere come fotografo è proprio un’astrazione, perché come non mai si è instillato il concetto che uno le foto te le deve regalare, per cui trovare qualcuno che lo faccia come mestiere risulta essere altrettanto raro.

Secondo la tua definizione di poco fa, che cosa rende una foto bella o uno scatto ben riuscito?
In realtà non si può partire da alcuna definizione: la foto si può ritenere bella o meno in relazione a quella che è la sua finalità: se tu l’hai pensata, l’hai voluta, magari ti è anche capitata, ma poi si è comunque ben adattata al soggetto che hai davanti, allora hai fatto il tuo lavoro. Bisogna partire da un presupposto, ovvero che quando si scatta una foto, il risultato è sempre la proiezione della tua mente, ovvero quando un fotografo si mette davanti ad un soggetto immortala, anche da un punto di vista inconscio, quello che è il suo punto di vista al riguardo e siccome stiamo parlando di variabili infinite, anche il risultato sarà soggetto alla stessa regola. Dal punto di vista professionale, per me che spesso fotografo dei personaggi, è quasi diventata una questione ‘psichiatrica’, perché mi tocca interpretare il desiderio, ovvero la maniera in cui  lui\lei vorrebbe essere ripresa o si vede. Ed il desiderio di farsi riprendere per arrivare ad un risultato peggiore della realtà, ovvero più brutti di come sono per davvero non è mai capitato nella storia dell’uomo, da Cleopatra in poi. Per cui l’obiettivo è quello di arrivare ad un risultato soddisfacente, in cui vengono risaltate delle sue caratteristiche per cui a posteriori si possa compiacere oppure meravigliare. Quando vengono da me è perché si aspettano un certo tipo di ritratto, e se tu glielo fai completamente diverso li spiazzi: il mio criterio in un lavoro è quello di cercare di restituirgli al massimo le loro aspettative, ovvero il loro standard con quel quid in più che proviene da me, fattore che se sono intelligenti viene intuito, diversamente no.

Sei più portato a progettare, costruire o a fotografare d’istinto?
Io non sono mai stato uno che progetta molto sai? Ci sono dei colleghi che per questioni o attitudini personali invece si comportano diversamente, preparandosi a tavolino. Io piuttosto cerco di convogliare degli elementi che poi, probabilmente, vista anche l’esperienza pregressa, mi daranno un certo tipo di risultato, ma poi deve scoccare una scintilla, ovvero deve succedere qualcosa che in quel momento devi essere in grado di riconoscere e far brillare. Fare il fotografo professionista necessità di una grossa capacità progettuale ed organizzativa, perché devi azzeccare una serie di variabili con il posto, capire quanto puoi chiedere al personaggio che sta davanti a te e tanto altro...

Il primo episodio di questo tipo che ti viene in mente qual è?
Con Frank Zappa, che odiava farsi delle foto con lo sfondo di una piscina, ma con lo spunto di un maglione che indossava quel giorno e che ben si integrava con il contesto, sono riuscito a portare il risultato a casa vincendo le sue resistenze iniziali. Stessa cosa è successa con Fabrizio De André, nonostante la fugacità dell’incontro, è successo un qualcosa che ritengo molto significativo.

 

Ma si è persa la poesia passando dalla pellicola al digitale?
Potremmo passare delle ore intorno a questa considerazione… Intanto diciamo che la qualità della vita è assai peggiorata, perché prima si lavorava molto meno, ovvero quando si andava di pellicola le modifiche in camera oscura erano del tutto relative, mentre adesso il digitale ha tempi di post-produzione praticamente infiniti, con delle pericolose manie di grandezza relative alla creatività applicata, che prima non si potevano neanche lontanamente ipotizzare. E qui torniamo al concetto di pre-visualizzazione dello scatto, perché con il digitale, quel tuo desiderio di raggiungere un risultato, ossia di cercare qualcosa nello scatto, obiettivo che non sai ancora sei puoi raggiungere o meno, sei parecchio facilitato. Io che ho tanta esperienza e scatti alle spalle, cerco di lavorare molto di più con la macchina e meno di post-produzione. Ma le possibilità che tu hai oggi di raggiungere in post quel risultato che avevi in fase di partenza e che poi per mille motivi diversi non hai raggiunto, sono così elevate che non puoi prescindere di avvalerti di questa chance per centrare quella meta ideale, senza però scadere nel posticcio, nell’artefatto. La cosa più bella in assoluto del digitale è stata l’apertura al mondo delle basse luci, perché le nuove macchine digitali hanno un grado di sensibilità che prima non era neanche possibile ipotizzare. Pensa che io ho utilizzato come fonte di illuminazione addirittura quella di uno schermo dove veniva proiettato un film: sulla carta impensabile, però di resa parecchio efficace.

Hai un soggetto fotografico preferito?
Quasi qualunque soggetto può diventare bello. Ora come ora sto facendo soprattutto ritratti in maniera convenzionale o meno, a musicisti o sconosciuti, in mezzo alla gente o anche nella piccola comitiva delle amiche di mia figlia. Quando sono stato al festival di Glastonbury in Inghilterra o al Love Parade di Berlino, c’erano due milioni di persone: per me ognuno di loro rappresentava un potenziale soggetto da fotografare.

So che hai iniziato da giovanissimo, quando esattamente?
Il mio primo concerto è stato nel 1974: un fantastico concerto degli Yes al PalaEur di Roma. È folkloristico dire che scattavo foto a quel tempo, però la scatoletta di diapositive con su scritto “Yes, Palasport 1974” ce l’ho, con la macchina fotografica prestata dal vicino ce l’ho. Diciamo che il lavoro vero, l’inizio di tutto, è arrivato con la nascita de La Repubblica nel 1976. Dopo due anni sono entrato in redazione spettacoli e facevo jazz e rock, però in quel momento il rock non se la passava benissimo, visti i disordini che c’erano stati con il concerto di Lou Reed, però non è che succedeva molto. La cosa curiosa è che aveva iniziato con me un altro compagno di classe che era Carlo Fuortes, lui faceva sinfonica ed operistica, un amico che poi ha avuto un ruolo manageriale verticistico sia presso l’Auditorium di Roma che adesso in Rai. All’inizio ho fatto un sacco di foto di jazz, Roma alla fine degli anni 70 era infatti un incrocio quasi obbligato per stelle del calibro di Stan Getz, Bill Evans, Chet Baker, Dexter Gordon, Sonny Rollins e poi dietro l’angolo c’era anche Umbria Jazz, una fonte inesauribile di personaggi e situazioni. Veramente tanta roba.

Il primo a darti totale fiducia chi è stato invece?
Probabilmente Carlo Verdelli che adesso è il Direttore di Oggi, dopo aver compiuto una brillantissima carriera: a quel tempo lui stava ad Epoca, testata molto importante, dove nella sezione cronaca ci lavoravano i più grandi reporter italiani del periodo (qui una copertina a caso del 1986, anno in cui arrivò Verdelli a dirigere il periodico). Carlo era pure uno springsteeniano di grande fede, quindi ci siamo trovati subito. La situazione di Repubblica ha funzionato per diversi anni, perchè di giorno studiavo, la sera andavo ai concerti poi di notte sviluppavo e stampavo, lasciando la mattina le stampe in bianco e nero ai giornali di quello che avevo fatto. Considera anche che all’epoca, alle agenzie di stampa di Roma che si occupavano massivamente di attualità, non è che gli interessassero molto gli spettacoli, poi però ad un certo punto è diventato un business un po’ più largo e soddisfacente.

Parliamo invece di Maestri e ispirazioni...
La mia ispirazione vera è stata costituita da ritrattisti di cui non si può fare veramente a meno. Irving Penn per esempio, un personaggio che ha lavorato nella moda, ma in modo alternativo e che negli anni 60\70 ha girato per il mondo pagato da Vogue e da Alexander Liberman che era il suo art director, per fare foto agli indigeni di Papua o Marocco in maniera super essenziale, spesso con un semplice sfondo bianco ed ad altri personaggi, tipo uno spazzacamino newyorkese in posa rilassata. Quando c’è stata la mostra al Castello Sforzesco di Milano, al terzo giorno consecutivo che stavo là, dall’apertura alla chiusura, uno della sicurezza si avvicinò moderatamente preoccupato per chiedermi se avevo delle cattive intenzioni. Io gli risposi semplicemente che volevo stare lì a guardare quelle foto fino a quando sarebbe stato possibile. Forse però la personalità di cui ho ammirato più materiale è stata Annie Leibovitz, che a metà degli anni 60 era già la fotografa di Rolling Stone, mentre io a metà anni 80 modestamente lo ero dei Litfiba... Ho cercato di ricalcarne le orme ma sempre con il dovuto rispetto, anzi come dico al mio amico e collega Luciano Viti, noi siamo stati una sorta di cugini poveri rispetto a loro, intanto perchè siamo nati a Roma; siamo diventati pure bravi prendendoci delle soddisfazioni e quindi siamo contenti così, ma non è che ci possiamo paragonare a un Jim Marshall, che stava sul palco di Woodstock o che se ne andava in vacanza con Joni Mitchell o in barca con Crosby, Stills & Nash. Noi purtroppo queste possibilità non le abbiamo mai avute. Io comunque ho continuato a guardare la Leibovitz, anche nel suo passaggio epocale da Rolling Stone e Vanity Fair. in quel momento lei si è inventata un nuovo stile, che poi ho cercato di perpetrare in toto con grande rispetto; quei suoi ritratti corali, dove ognuno parla per sé, rappresentano la prosecuzione dei ritratti di Rembrandt, come concetto di persona, perchè anche se all’interno di un gruppo di dieci persone, ognuno è ritratto come se fosse sé stesso e distaccato dagli altri. L’ho trovata una cosa geniale e ho cercato di farli alla stessa maniera. Poi ci stanno centomila fotografi bravi, ma io sono stato affascinato dal tentativo di distacco dal metodo realistico del ritratto normale, questo perchè la vena rock ti può portare a fare delle cose diverse dall’ordinario, tipo fotografare i Clash in mezzo alle galline, ma bisogna anche essere capaci di rimodulare la propria sensibilità a seconda di come uno si alza e guarda il mondo. Prendi Albert Watson ad esempio, un inglese che vive a New York, potremmo considerarlo un ritrattista stile Leibowitz, ma occorre fare attenzione: anche se apparentemente pare che faccia sempre la stessa foto, i suoi criteri sono diversi ed evolutivi.

A proposito di Maestri, siamo reduci da una spettacolare mostra che il Maxxi di Roma ha dedicato a Sebastião Salgado, ma tornando alla ruggente epopea del Rock, se qualcuno considera per esempio l’operato di un Jim Marshall, obietta che la sua fama è dovuta anche al fatto che praticamente non aveva concorrenza in alcuni dei suoi scatti più famosi, nel senso che lui era lì e non ci stava praticamente nessun altro...
Si tratta di una questione di lana caprina, direbbero gli storici. Partiamo da Salgado, le cui foto appartengono ad un filone molto saccheggiato, perchè in tanti hanno provato a fare le foto come le ha fatte lui nei paesi del terzo mondo, Salgado però è riuscito a fissare cose di grande drammaticità con estrema leggerezza e poesia, molti altri non si sarebbero mai sognati: un grande Maestro, capace di realizzare un lavoro di ricerca etnica e sensibilizzazione su alcune tematiche centrali per il pianeta di assoluto livello. In questa mostra romana, vista anche la natura commerciale dell’evento, c’era un tocco artificiale ed artificioso, ma nonostante tutto si può dire che si è riusciti a mantenersi sul sobrio.

E su Marshall invece?

Ci stavo arrivando, con due distinguo che vanno a braccetto, ovvero la possibilità e\o la fortuna di essere al posto giusto nel momento giusto e poi quella di essere un bravo fotografo. Indubbiamente sono stati tanti quelli che hanno fatto le foto nello stesso periodo di Marshall (qui sopra una sua foto del periodo), prendi Lynn Goldsmith ad esempio, che seppur non dotata di straordinarie capacità ha fotografato questo mondo e quell’altro, mentre Jim era oggettivamente bravo e questo non si può assolutamente mancare di sottolinearlo. Ma bravi come lui ce ne stavano eh, pensa alle foto da schianto che faceva David Bailey, fotografo inglese e star della fotografia mondiale degli anni’60, status raggiunto non per sbaglio, ma perchè era veramente geniale ed empatico. Basti dire che se ne andava al parco con i Beatles o chiacchierava con gli Stones in situazioni poco usuali oppure ancora ripensi alla famosa foto che fece a Bowie nel ’67… sono tutte situazioni in cui vedi che ci sono qualità tecniche-artistiche superiori. Lo riconosci subito che è lui, con gli elementi che poi hanno tramutato la sua estetica in un insuperabile marchio di fabbrica. La situazione conta, ma conta pure il manico.

In quale libro o esempio potremmo trovare una sublimazione di queste tue riflessioni?
Il primo che mi sovviene è ‘Una goccia di splendore’ (Rizzoli Editore), sapientemente curato da Guido Harari sulla meravigliosa esperienza condivisa fra la Premiata Forneria Marconi e Fabrizio De André. Quanta vita e quante mani hanno ritratto dei momenti formidabili, ma si capisce anche il senso estetico di Guido nell’assemblare il materiale a disposizione, bellezza pura, capace di oltrepassare categorie ed aggettivazioni, perchè il protagonista era Fabrizio, un fuoriclasse che faceva categoria a sé. Quel tipo di libro ha bisogno di un carisma tracimante come quello che lui aveva. Guardando il materiale che ha lasciato, quello che ha scritto, il personaggio che era, si sarebbe potuto riempire non un libro, ma un’enciclopedia intera.

A proposito di iconoclasti, hai avuto un rapporto privilegiato anche con Franco Battiato, durato fino ai suoi ultimi giorni di vita...
“Zio” Franco per me, davvero uno di famiglia. Un geniale visionario, sempre avanti a tutti di una spanna: nel nostro trentennale rapporto, ogni volta che gli ho proposto qualcosa di particolare, che non era esattamente nel suo mondo, ha sempre scelto la via meno convenzionale. Avendo una mente superiore, per lui era facile. Anche se il tutto poteva avere un risvolto zappiano e quindi di rottura. Un grandissimo, capace di discernere fra il bello ed il brutto in due millesimi di secondo. Mi ricordo perfettamente di quando dovevamo fare una foto per la copertina per l’Uomo Vogue, con lui che doveva portare gli occhiali Persol che è stato forse uno dei punti più critici della mia carriera: penso che l’avremo ritoccata almeno 500 volte, Franco si accorse di un particolare, su cui lavorammo fino a quando non ne restò totalmente soddisfatto. Essere criticati da chi ha un’intelligenza così vivida è anche un piacere, il problema sorge in tutti quei casi in cui ti trovi di fronte gente che lo fa ma non ci capisce nulla o quasi. Era super simpatico e disponibile con gli amici come implacabile invece con i nemici e chi considerava inetto. Certi versi del suo carattere ricordavano Pino Daniele, anche lui uno tostissimo, gentile e cortese ma di una precisione chirurgica sul lavoro, molto attento ai dettagli: quelli capaci di fare la differenza.

 

Allarghiamo il discorso fuori dai nostri confini. So che è molto difficile provare ad essere coincisi su Bruce... ci proviamo? Anzi da dove iniziamo, da te sempre adolescente?
Beh, ai tempi di quel famoso concerto degli Yes al palazzetto di cui parlavo, magari ancora non ero uno springsteeniano, ma poi quando nel 1978 uscì “Darkness on the edge of town”, io ovviamente ce l’avevo. In Europa Bruce era già capitato nel 1975, ma poi non si era più visto. L’inizio della leggenda per molti fu il concerto di Zurigo nel 1980, ma non ci andai perchè insieme ai super amici Ernesto Assante, Stefano Mannucci ed Enzo Capua, avevamo preso il biglietto per Lione, sempre all’interno di quel fantasmagorico tour a supporto di “The River”. Una cosa alquanto rocambolesca per me, con un esito amaro: dovevamo partire assieme con la macchina, solo che mio padre non mi ci mandò; un divieto che procurò in me una certa frustrazione, considerando che avevo quasi 20 anni. Ma tre mesi dopo, con la complicità dei miei cugini inglesi, andai però a Londra e lo vidi per due volte e mezza alla Wembley Arena e fu qualcosa di clamoroso. Per cui, quando nel 1985 arrivò a Milano per il suo epico debutto italiano, per molti fu una sorpresa, mentre io - e non solo io ovviamente - ero già ben preparato. Di quel tour feci altre otto tappe, anche se ‘Born in the Usa’ non è fra quelli che si amano di più nel giro dei fan incalliti.

Ma perchè Bruce non teme praticamente confronti dal vivo?
La ragione è molto semplice. Non ci può essere un paragone, semplicemente perchè lui è come nessun altro. Anche in tempi recenti, vedere un suo concerto è sempre sorprendente. In altre parole, ma come mai il terzo pezzo di Bruce spesso è equiparabile al bis degli altri? Ovvero il concerto inizia, comincia ad entrare dal vivo e spontaneamente ti chiedi: ma adesso che Madonna succede per i prossimi 30 pezzi? Specie quando imbrocchi una di quelle serate in cui Bruce si inventa una scaletta magica. Ma sai quanti amici ho, zappiani convinti, che pensavano che Bruce fosse un bovaro strappato ai campi di agricoltura del New Jersey e che invece, quando sono tornati a casa dal concerto, hanno rovesciato il pensiero proprio perchè un live del genere non lo avevano mai visto in vita loro? Aggiungo anche che in Bruce si sublimano un paio di caratteristiche che sono appannaggio di un ristretto numero di rockstar, ovvero la profondità e la veridicità del messaggio. Quando lo vedi suonare e cantare sul palco dando tutto sé stesso, allora ti rendi conto che Bruce è sincero, è uno che non bara, che non si risparmia praticamente su nulla. E quindi ti porta via con sé. Esattamente come Roger Daltrey e Pete Townshend, coatti londinesi, che sul palco fanno ciò che gli passa per la testa, anche spaccare chitarre ed ampli. E visto che parliamo di loro due, personalmente penso che gli Who restino una spanna al di sopra delle loro Maestà Beatles and Rolling Stones, perchè anche lì è vero tutto, ogni parola.

 

Un live di Springsteen quasi come un’esperienza ‘mistica’, che non si può spiegare a chi non l’ha mai vissuta davanti ai suoi occhi...
Mi permetto di usare il concerto di Bruce come se fosse uno spartiacque fra chi lo ha visto e chi se lo è perso, un po’ come la visione di ‘Zabriskie Point’ di Antonioni con la colonna sonora firmata dai Pink Floyd e Jerry Garcia dei Grateful Dead: non per denigrare, se lo hai visto e non ti è piaciuto, allora fai parte di un altro gruppo, che ragiona in maniera diversa. Bruce dal vivo è qualcosa che va oltre il tradizionale concerto in sé e per se. Io mi sono ritrovato con i lacrimoni a cercare ospitalità e conforto su spalle di sconosciuti, mentre lo stesso inseparabile amico Ermanno Labianca, con cui ho condiviso tanta parte di queste storie di rock & roll, ha avuto i suoi momenti in cui se non fosse stato presente, dopo quel vacillare nelle intenzioni che a volte prende un po’ tutti, si sarebbe pentito amaramente per il resto della sua vita. Ricordo due sere consecutive a Barcellona, in cui ha eseguito 54 pezzi diversi, con cambio quasi radicale al secondo show e chiusura concerto alle due meno un quarto del mattino, davanti a 90 mila persone osannanti. Per smaltire tutta quella adrenalina, io ed Ermanno decidemmo di tornarcene a piedi fino all’albergo che raggiungemmo quasi tre ore dopo: ma era una felicità così inebriante che quasi non ci rendemmo conto di quello che era successo. Leva il mestiere, stratificato da centinaia di concerti ovunque, adesso è anche giusto che Bruce, superati i 70, durante il concerto rifiati un attimo. Ma giusto un attimo… tipo quando fa cantare Waitin’ For A Sunny Day a un bimbo o ripropone l’ormai tradizionale siparietto di Dancing In The Dark, ecco, io a metà concerto devo rifiatare con un panino ed un Gatorade, mentre lui canta e suona senza sosta, continua imperterrito dall’inizio alla fine con la stessa energia. Diciamo che fino al 2009 andava veramente come un treno, davvero un adolescente scatenato. Ma sempre restando nella verità, anche il ‘Seeger Tour’, che qualcuno ha criticato, era una cosa autentica, non un artificio o peggio ancora un escamotage. A dire il vero, le sue ultime cose in studio a volte hanno lasciato perplessi: per esempio in “Western Stars” ci sono alcune cose in falsetto con la moglie Patti che mi sono sembrate il frutto di un compromesso un po’ forzato, ma che ci vuoi fare? Non si può certo essere intransigenti su tutto per vivere. Bruce resta un artista unico, che sono certo continuerà a suonare fino a quando avrà fiato, magari cambiando stile, ma sempre facendo cose meravigliose come pochi, straordinari artisti, si possono permettere di fare.

 

Un’ultima cosa su di lui. Parlami dell’atmosfera molto complice che lega Springsteen allo Stadio Meazza di Milano, meglio conosciuto come San Siro?
C’è una vibrazione unica che li unisce, lui lo sa e l’ultima volta lo ha ribadito davanti a tutti: nel 2003 quando pioveva a secchiate e lui dopo oltre tre ore di concerto sotto la pioggia, con la camicetta diventata rosa tanto che era zuppa, uscì incredulo perché non se ne era andato nessuno. Gli stadi verticali amplificano molto questa euforia, quando alzi gli occhi e vedi una serie di teste che non finiscono più, allora la cornice ti impressiona: un muro di gente di cui non vedi mai bene il confine, anche per questo fotografare in questi stadi è entusiasmante. San Siro regge Wembley, Barcellona, Madrid. Chiudo con una postilla sul pubblico. In Spagna, ad esempio, il suo seguito è diverso, il pubblico ha circa la metà degli anni di quelli che vanno a vederlo a Londra: all’ultimo concerto degli Who che ho visto, la platea era praticamente costituita dai loro coetanei.

Vogliamo ricordare qualche altra serata magica nei tuoi ricordi?
Una botta al cuore è stata la prima volta che ho visto gli Stones, eravamo nel 1982 a Rotterdam. Si trattava dell’apertura tour europeo, che poi fece tappa anche in Italia. Ci andai con Luciano Viti per due sere di seguito: una sera eravamo accreditati, l’altra no. Quando mi ritrovai in buca, Mick Jagger a tenda chiusa attaccò Under My Thumb, piazzandosi poi a circa 50 cm da dove stavo io, con altri cinquecento fotografi che cercavano di appropriarsi di altri centimetri preziosi. Puoi immaginare l’euforia che provai in quel momento. Ma io, tradizionalmente non sono un tipo che si tira indietro, ed anche in quell’occasione prima di essere travolto dall’emotività avevo già portato le foto a casa. Un ricordo davvero brillante: ci invitarono anche al party del dopo concerto, con Keith abbracciato a Luciano in una situazione ragionevolmente “alticcia”: tutto un mondo che adesso non esiste praticamente più. Poi altro ricordo vivido è quello degli Who in Svizzera, ancora presso l’Hallenstadion di Zurigo nel 1980 e sempre con l’amico Ernesto Assante: eravamo accreditati per l’edizione italiana di Rolling Stone; ci riservarono dei grandi onori che invece avrebbero dovuti essere riservati ai colleghi americani, ad esempio ci portarono in camerino con Roger Daltrey vestito da perfetto gentleman inglese, con il calzino a scacchi e le scarpe Church ai piedi , facendomi dubitare sull’essenza del mio idolo rock, che invece davanti a me sembrava così signorile e compassato. Ero a Londra anche nel 2019 a Wembley ed anche li hanno fatto un concerto senza tempo, come se fossero gli anni ‘70 con un’orchestra rock che mi ha ricordato le robe di Stomu Yamashta. E Pete dal palco non ha mica detto che quello era il concerto di commiato, dando un appuntamento per l’anno a venire, poi purtroppo è stato tutto spazzato via dal Covid. Indimenticabile anche Bob Marley, ma in realtà la mia vera fortuna è stata quella di passare quasi un anno negli Stati Uniti proprio sul finire degli anni ‘70, con il privilegio di vedere un sacco di concerti, fra la California e New York. Sono sempre stato un fan accanito di Muddy Waters, sia in versione elettrica che acustica ed un pomeriggio a casa di un mio zio italo-americano, sprofondato sul divano di casa sua a Brooklyn, prendo il Village Voice e leggo nella sezione dei concerti che proprio la stessa sera ci sarebbe stato un suo concerto, condiviso insieme a BB King presso il Beacon Theatre: fu come se fossi stato colpito da una scossa elettrica, uscii di casa per precipitarmi al botteghino di un teatro che più nero non si poteva, compro il biglietto da un bagarino spendendomi tutti i soldi che mi sarebbero serviti fino al resto del mio soggiorno americano, per un posto in terza fila. Inizia il concerto e non appena Muddy Waters prende il centro del palco, io svengo come il più accanito dei sorcini di Renato Zero. Mi portano in infermeria mi rianimano dopo qualche pezzo e sono nuovamente in teatro, che era composto da me ed un mio amico olandese - lui un cencio, io almeno un po’ ero abbronzato - e altri 1500 neri che più neri non si poteva e scatenati fino all’epilogo finale quando arriva anche Johnny Winter, che era l’altro mio idolo, ed insieme eseguono una versione supersonica di Johnny B Goode, per l’apoteosi finale. Per fortuna non sono svenuto, anzi ho fatto anche delle foto che so pure dove stanno nonostante le difficoltà dei soggetti in quanto uno era nero come la pece e l’altro albino, per cui fotografarli insieme e da vicino, risultava davvero molto difficile.

C’è stato invece qualcuno che hai fotografato che avrebbe meritato tutt’altra carriera e riconoscimenti?
Una valanga a dire il vero. Pino Marino (qui la foto di copertina del suo album d'esordio), Daniele Groff, Erica Mou sono i primi nomi ad affiorare: personaggi di nicchia, con una loro grande dignità artistica ma che poi sostanzialmente sono rimasti ai margini di certi giri. Poi altri tipi simpatici come la Banda Bassotti, ragazzotti che per campare montavano impalcature e poi continuavano a diffondere imperterriti lo ska romano.

Le tue foto sono sempre state utilizzate al meglio?
Non sono la persona più indicata a ribadirlo visto che sono il soggetto interessato, però mi sovviene un episodio anzi due con la cara Fiorella Mannoia. Con lei ho realizzato un buon inserto fotografico aggiuntivo per un’edizione limitata di un suo doppio album dal vivo, ma ricordo anche delle meravigliose foto scattate in Brasile per il suo album “Onda Tropicale”, poi ridotte a dei francobolli nella stesura e resa definitiva del libretto annesso.

Per ultimo, qual è stata la soddisfazione più grande della tua carriera?
Avere seguito la carriera e la vita di Franco Battiato per oltre trent’anni, da quando me lo ha presentato Stefano Senardi in Polygram fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Sono andato a trovarlo anche al suo capezzale a Milo, ed è stato un momento davvero molto toccante della mia vita. Poi ci sono stati tantissimi altri momenti da ricordare, fra questi c’è anche una mostra ‘Lo sport contro la droga’, commissionata dal Coni Italiano e finita in esposizione presso il Palazzo di Vetro a New York nel 1985. Venne utilizzata in un’occasione ufficiale presso la sede delle Nazioni Unite con dei pannelli 6 x 4, presentata ad un parterre di grandi personalità dello sport, icone del calibro di Pelè, Cassius Clay, Julius Erving e John McEnroe, presenti al gala di apertura che mi cercavano per stringermi la mano.

 

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